Lo Sturno e il brigantaggio meridionale

di Paolo Vincenti

Il brigante Giuseppe Schiavone

Sull’Unità d’Italia molte pagine sono state scritte, così come su quel gigantesco fenomeno sociale che va sotto il nome di Brigantaggio. All’indomani dell’Unificazione, si aprì una lunga fase di intensi dibattiti, che coinvolse moltissimi intellettuali del Sud, e che fu chiamata “questione meridionale”.

Quel che è certo è che, nel 1861, l’unificazione della penisola aveva lasciato molti nodi non sciolti, molte contraddizioni interne al Paese che, come una bomba sarebbero esplose e le cui conseguenze sarebbero state devastanti. Vennero uniformate la moneta, le dogane, i regolamenti di pubblica sicurezza e di sanità; un Governo centrale, con sede a Torino, governava per tutto il Paese ed un Parlamento nazionale legiferava erga omnes. Però, molti erano i problemi ancora da affrontare, sempre più forte il divario fra il Nord, avviato ad un futuro di ricchezza ed industrializzazione, ed il Sud, che invece si ripiegava su se stesso; miseria, analfabetismo e condizioni di vita molto precarie avevano esasperato gli animi e acuivano quelle tensioni sociali da cui, per buona parte della sua storia, la nuova Italia sarebbe stata dilaniata. Soprattutto nel Sud, si avvertiva una tensione sociale fortissima che da un momento all’altro poteva portare a dei conflitti non più domabili. E infatti, si arrivò ben presto all’inevitabile e il brigantaggio si trasformò in un grande sobillamento di masse, che scosse per alcuni anni a fondo la vita del Meridione d’Italia.

I vecchi governanti, i Borboni, erano stati destituiti e si era insediata una nuova classe dirigente che si apprestava a guidare il Paese in condizioni non facili. Vi era stato un processo di unificazione forzata, che non era partito dal basso, dal popolo, ma era stato calato dall’alto. Le plebi contadine erano affamate e chiedevano disperatamente una soluzione per il problema delle terre; il prelievo fiscale introdotto dal nuovo Stato finiva per oberare solo i ceti meno abbienti, che sprofondavano ancora di più nella miseria, mentre i “galantuomini” scesero subito a patti con i Savoia e si riciclarono nella nuova classe dirigente. La plebe non capiva e non si poteva adeguare ai modelli di vita imposti dai Piemontesi, i quali apparivano come dei nuovi “conquistatori”, con la conseguenza che il popolo era passato dai vecchi ai nuovi padroni. Si era aggiunta, cioè, la beffa al danno, perché gli arroganti e spocchiosi dirigenti piemontesi, pur parlando la stessa lingua, sembravano ancora più distanti dalla antica cultura del Mezzogiorno di quanto lo fossero stati i Borboni. Questi ultimi seppero coagulare, intorno alla disperazione e al malcontento, tutti i nostalgici dell’antico regime che si organizzarono in un vasto movimento di opposizione al nuovo Stato.

Molti di questi miserabili scelsero la lotta armata e si riunirono in bande che determinarono il triste fenomeno del brigantaggio.

Francesco II di Napoli

Francesco II, da Roma, dove si era rifugiato dopo la caduta di Gaeta, cercò di sfruttare a proprio vantaggio questo vasto malcontento delle plebi del Sud ed alimentare, anche grazie all’appoggio del clero reazionario, il brigantaggio, nel quale erano confluiti tutti coloro che erano rimasti senza lavoro dopo lo scioglimento dell’esercito borbonico e che erano chiamati “sbandati”. I governi della Destra nazionale cercarono di reagire a questo fenomeno, ma i rimedi adottati per combattere quel male furono assai più dannosi del male stesso. Ma dato che “le parole sono pietre”, per dirla con Carlo Levi, anche il termine “male” non deve avere un valore assoluto con riferimento al fenomeno del brigantaggio.

Bisogna, infatti, tener conto che, il più delle volte, questi briganti agivano con l’appoggio popolare e con l’appoggio tacito delle amministrazioni locali; che non tutti i briganti erano dei malavitosi e commettevano delitti; e ancora delle attenuanti storiche che aveva il brigantaggio.

Un tipico esempio di brigante galantuomo è proprio il nostro “Capitan Sturno”. Chi era lo Sturno? L’anno scorso, in occasione della terza Festa dei Briganti, organizzata a Parabita dalla compagnia teatrale Prosarte, in collaborazione con l’Archivio Storico Parabitano, diretto da Aldo D’Antico, è stata riscoperta la figura di questo leggendario personaggio parabitano, vissuto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. Questa figura di bandito gentiluomo era stata troppo a lungo dimenticata, probabilmente per un processo mentale imposto da fattori inibitori che avevano portato i discendenti di questo personaggio a rimuoverne la memoria. Molti briganti rubavano, uccidevano, assaltavano i municipi delle città, saccheggiando e depredando tutto quello che potevano. Ma quella dello Sturno è una figura che spicca, nell’ambito del brigantaggio salentino, perché del tutto originale.

Rosario Parata nasce nel 1831 a Parabita e, a causa dell’indigenza in cui versava la sua numerosa famiglia, decide di arruolarsi nelle file dell’esercito borbonico, giurando fedeltà alla Corona. Sciolto l’esercito borbonico dai Piemontesi, Parata ritorna nella sua Parabita che si trova in piena crisi, fra le tensioni opposte dei monarchici conservatori e i neo liberali di ispirazione sabauda. Il lavoro scarseggiava e i soprusi della borghesia locale, che aveva soppiantato la vecchia aristocrazia, erano evidenti. Parata si ribella a questo stato di cose. Egli, profondo conoscitore del territorio ed abile cavallerizzo, riunisce alcuni suoi amici, che condividevano il suo stesso disagio, e diviene il loro leader. Con il soprannome di “Capitan Sturno”, imperversa nell’entroterra salentino, negli anni fra il 1861 ed il 1864, e diviene molto famoso.

Il Governo ordinò una durissima repressione del fenomeno del brigantaggio e mandò la Guardia Nazionale, insieme alla polizia e all’esercito: una mobilitazione spaventosa per un totale di 120.000 uomini.

Fu presentata alla Camera, nel 1863, una Relazione, da parte della commissione parlamentare Massari, costituita per indagare sulle “ragioni sostanziali”, come si disse, e sulle “cause predisponesti” del fenomeno. Questa commissione, che dimostra la volontà da parte del governo centrale di andare a fondo al problema, additò le ragioni del brigantaggio nella distribuzione delle terre, che aveva penalizzato fortemente i contadini, nei patti agrari, onerosissimi per i contadini, e più in generale nelle tristi condizioni economiche e sociali del Meridione.

Purtroppo, sulla volontà di capire ed interpretare il fenomeno, prevalse la linea della fermezza e della repressione armata e il Parlamento votò, nel maggio del 1863, la Legge Pica – voluta dalla maggioranza moderata e duramente contestata dall’opposizione democratica- che prevedeva la competenza dei Tribunali militari a giudicare i briganti e i loro complici, mentre l’esercito andava compiendo la difficile opera di “normalizzazione” e di riduzione all’ordine dei ribelli.

Fra il 1 giugno e il 31 dicembre 1865, i briganti uccisi in combattimento o fucilati furono 5212, quelli arrestati e condannati 5044, quelli costituitisi alle autorità 3597. Le bande dei briganti erano costituite, in media, da 100-150 elementi ed avevano una organizzazione di tipo militare, una casacca comune e combattevano con la tecnica della guerriglia. Accanto a queste grosse bande, animate da un ideale politico, vi erano le piccole bande, che potevano essere composte anche da una decina di elementi, ed erano ladri ed assassini che praticavano il brigantaggio comune.

In occasione della riscoperta della figura di Rosario Parata, Aldo D’Antico ha pubblicato un opuscoletto, che fa parte della sua collana “Documenti” (Il Laboratorio editore), dal titolo Lo Sturno.

Il Parata, come scrive D’Antico, indossava la divisa dell’esercito borbonico e irrompeva nei vari centri sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni. Molte furono le sue imprese, che gli fecero guadagnare la fama indiscussa di leader del brigantaggio salentino. Con la sua banda di 50-60 elementi, metteva lo scompiglio nei centri salentini. Egli si faceva annunciare da uno squillo di tromba e, al grido “Viva Francesco II”, dava la carica insieme ai suoi accoliti, lasciando spesso a bocca aperta la Guardia Nazionale. Egli era sì spavaldo, ma leale e coraggioso e non si macchiò mai di delitti. Nel 1864, viene catturato. Processato, viene condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, viene trovato morto in carcere: probabilmente avvelenato, come accadeva a molti briganti dell’epoca per essere eliminati silenziosamente.

In seguito alla atroce campagna di polizia voluta dal Governo Minghetti, vennero eliminati non solo i criminali ma anche tanti innocenti; vennero perfino bruciati molti ettari di boschi per scovare i briganti: questa giustizia sommaria coinvolse, oltre ai ribelli, anche i cosiddetti “manutengoli”, cioè preti, monaci e parenti dei briganti, gregari, insomma, che davano il loro appoggio, spesso solo ideale, ai ribelli. Insieme a questi straccioni affamati, vi erano anche le famiglie dei grandi proprietari terrieri che non di rado ispiravano clandestinamente il brigantaggio locale, pur chiamandosi ufficialmente fuori dai contrasti politici. Questi signori riuscirono sempre a farla franca e ad evitare le condanne che i tribunali dello Stato infliggevano invece ai “cenciosi”, come lo Sturno, brigante atipico, che Parabita ha ora riscoperto.

Pubblicato su “Città Magazine”, 7-13 aprile 2006 e poi in “Di Parabita e di Parabitani” di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

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5 Commenti a Lo Sturno e il brigantaggio meridionale

  1. Faccio un libro di fotografie e, un po, della storia della mia famiglia Sturnese che conosciamo. Vorrei trasmettere al mio zio, Antonio Caggiano di Sturno, questa storia con questo indirizzo della rete. Pensiamo che un fratello del mio bis-nonno fu ucciso dai brigantaggi. Posso avere il suo permesso di usare la storia (o una parte della storia) per il mio libro fotografie? Grazie.

    Lorenzo (Larry Holbrook)
    Hawaii, U.S.A.
    808-735-8426

    • Ma certo, Lorenzo, è un piacere per me. fai pure. agttingi a piene mani…
      Saluti alla tua bellissima terra…
      Paolo

  2. Ho condiviso sulla mia pagina di FB. Queste storie bisognerebbe condividerle in tanti. I meridionali sono stati ingannati dai soliti rufiani che si prostituiscono ai potenti di turno e dai quali pensano di ricavarci dei profitti. Ed alla fine i rufiani vivono e le persone che avevano degli ideali veri periscono. Ma il tempo può sempre fare giustizia. Ma peccato che la storia poi la gestiscano altri rufiani di turno e non il popolo!

  3. Complimenti. Voglio farle una domanda. Mi sembra si tenda negli ultimi tempi ad identificare il momento della nascita del brigantaggio con lo sgretolamento dell’esercito borbonico conseguente all’unificazione. Ma quanto può giustificarsi questa interpretazione alla luce dei dati storici che riportano il brigantaggio tra i problemi più gravi che già i viceré spagnoli si erano trovati ad affrontare dal 600, con le bande di “bravi” che spesso finivano al soldo dei feudatari e dei signorotti locali e che facevano il bello ed il cattivo tempo? La ringrazio se vorrà rispondere esprimendo l’opinione Sua, e magari riportando quella del Prof. D’Antico, che ho avuto il piacere di conoscere a Parabita.

  4. È chiaro che quello della criminalità è un fattore endemico nel nostro Paese. Essa poi ha trovato nelle varie epoche e in contesti storico sociali diversi il modo di organizzarsi, come avvenuto all’indomani dell’Unità d’Italia con il vasto fenomeno del brigantaggio sopra descritto. Il malcontento intorno al nuovo stato di cose coagulò masse di nullafacenti, piccoli criminali, straccioni, manutengoli, borbonici ed anti liberali in questa triste banda armata, di cui poi si è impossessata una certa storiografia creandone l’epopea. Tengo a precisare che figure come Lo Sturno, ed altri banditi galantuomini come lui, pur letterariamente affascinanti, non costituiscono la regola del fenomeno malavitoso, ma l’eccezione.
    Non posso garantire per la risposta del prof. D’Antico.

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