I seminaristi, terza-puntata
I seminaristi erano divisi in cinque classi di studio, dalla I media al V ginnasio. Nel mio primo anno scolastico, 1960-1961, eravamo in tutto 65. Terminato il ciclo formativo nel Seminario Vescovile, c’era poi il passaggio al Seminario Regionale di Molfetta dove lo studio si protraeva per altri otto anni: tre di liceo, uno di filosofia e quattro di teologia. Ogni anno entravano nel Seminario di Nardò una ventina di ragazzi, un numero che, per via degli abbandoni e delle bocciature, in V ginnasio si assottigliava della metà circa. Le camerate erano quattro per via che IV e V ginnasio, di numero più esiguo, formavano un’unica camerata.
Provenivano i seminaristi dai paesi della diocesi di Nardò che si estendeva da Porto Cesareo fino a Racale, una striscia di territorio che confinava a ovest con la diocesi di Gallipoli (oggi accorpata a quella di Nardò) e la diocesi di Ugento; a est, con la diocesi di Lecce e l’arcidiocesi di Otranto.
Il paese che ‘sfornava’ più seminaristi era Copertino (30 su 65, quasi la metà). Si diceva che ciò fosse dovuto alla presenza di un radicato spirito religioso per essere il paese votato al grande santo copertinese. Sta di fatto che Nardò, centro della diocesi, quasi il doppio degli abitanti di Copertino, in confronto era avara di seminaristi (15 su 65). Nella mia classe d’inizio, compreso un ripetente, provenivano: da Nardò Giuseppe Barone e Vincenzo Tempesta; da Copertino Antonio Tòzzoli, Sebastiano Cairo, Antonio Raho e Giovanni Cazzolla; da Leverano Giuseppe Margapoti; da Aradeo Orazio Resta, Antonio Resta, Michele Ramundo e Luigi Carmine Conte; da Matino Graziano D’Amore; da Melissano Luigi Tenuzzo, Luigi D’Argento e Donato Manco; da Parabita Fiorentino Seclì e Giovanni Felline; da Neviano Giorgio De Blasi; da Porto Cesareo Rocco Presicce; da Racale Roberto D’Ippolito; da Collemeto Alfredo Romano, il sottoscritto. In tutto 21, ma, in V ginnasio, restammo in 11, di cui Salvatore Cataldo di Parabita e Dario Palma di Copertino, entrambi entrati in anni successivi. Uno solo però su 21 è arrivato alla meta: Antonio Raho, uno dei miei compagni più cari, oggi monsignore e parroco della Parrocchia del Sacro Cuore di Nardò.
In Seminario non si entrava gratis: occorreva prima di tutto munirsi di un corredo: 1 materasso di lana, 1 cuscino di lana, 2 coperte di lana, 4 lenzuoli, 2 federe, 5 mutande, 5 paia di calze, 3 camicie bianche senza girocollo, 1 mini clergyman con 2 paia di pantaloni, 1 cappotto, 2 maglioni scuri, 1 paio di scarpe, 10 fazzoletti, 1 basco e uno spolverino nero (che poi era la ‘divisa’ per ogni azione del giorno feriale per evitare di sgualcire quella ‘d’ordinanza’). Il clergyman s’indossava solo la domenica e quando s’usciva fuori per le passeggiate giornaliere di un’ora. In più, per le cerimonie liturgiche interne ed esterne (vedi cattedrale), una tonaca con i bottoni rossi e una cotta bianca con gli orli ricamati a mano dalle suore alcantarine di Molfetta. Per non dire di una berretta a spicchi, detta anche tricorno, che oggi sembra passata di moda, solitamente usata nelle cerimonie funebri, ma anche in quelle liturgiche delle grandi feste. C’erano sacerdoti, però, che la portavano normalmente in pubblico al posto del ‘saturno’, anche questo ormai estinto.
Per le due coperte, mia madre Lucia rimediò una militare, ben larga, che mio padre Giovanni si era portato dalla guerra d’Etiopia. La tagliò in due ed entrò nel mio corredo. In verità erano coperte pesanti, ma non di lana, per cui d’inverno pativo il freddo. Ma aspettai tre anni per rivelarlo a mia madre: non volevo pesare ulteriormente sul bilancio familiare. Mi rimproverò lei per questo e provvide a due nuove coperte color marrone di vera lana con le greche disegnate ai bordi.
Anni dopo, morì in solitudine e miseria, qui a Civita Castellana, un anziano diacono che aveva indossato sempre l’abito talare e aveva svolto in cattedrale la funzione di sacrestano. Fino all’ultimo fu assistito dai miei. Il poveretto non disponeva neppure di una cotta per essere seppellito, ma mia madre si ricordò della mia conservata nella cassa. Bene, lo vestì della mia cotta privandosi, lei, di un ricordo che teneva come reliquia. Io non c’ero e seppi della cosa tempo dopo. Era anche un mio ricordo quella cotta spiegazzata da liturgie minuziose che tracciavano nell’abside ignari labirinti, quella cotta intrisa di profumi d’incenso sulla quale avevano volteggiato antichi e severi canti gregoriani, quella cotta il cui bianco mi distraeva dal tutto nero vestito, il colore dell’alba che aspettavo nella monotonia dei lunghi cinque anni privato della mia adolescenza. Ma mia madre fece bene a fare quel che fece, non le ho mai mosso un rimprovero per questo. Però… la mia cotta!
Altra spesa non indifferente, quella dei libri in prima media. Il vocabolario di latino, per fare un esempio, il Campanini-Carboni, costava allora 5 mila lire (un contadino guadagnava allora 1000 lire al giorno, un operaio specializzato 1500). Ma quei tanti libri nuovi dal buon odore di piombo furono la mia grande gioia: chi aveva mai visto tanti libri? Ma due in particolare erano i più graditi: l’antologia italiana e il liber usualis. Ma a quest’ultimo, però, dedicherò un’altra storia.
Infine c’era la retta annuale di 100 mila lire. C’è da dire che la maggior parte delle famiglie da cui provenivano i seminaristi erano povere, i genitori quasi sempre braccianti presso i latifondi dei ‘signori’, oppure emigrati a Milano, a Torino e nei paesi del Nord Europa. Non tutti potevano permettersi la retta. A questo punto so che entravano in campo dei benefattori che contribuivano in denaro, oppure in derrate alimentari. Il miracolo economico era alle porte, ma ancora di là da venire. Per dire, uno della mia classe, figlio di un impiegato di banca, lo si considerava ‘ricco’, anche perché parlava diligentemente l’italiano rispetto a noi poveri ‘cafoni’. Oggi non è più così, per fortuna.
Mi sono sempre chiesto quanto abbia inciso sulla ‘vocazione’ la condizione economica e sociale della famiglia d’origine. Quelli, in ogni caso, erano i tempi con le ordinazioni sacerdotali in diocesi di 3-4-5 sacerdoti all’anno. C’era abbondanza di sacerdoti, tanto che il vescovo ne dispensava alcuni per esercitare fuori diocesi là dove c’era bisogno (mio cugino don Cosimo Nestola, per es., oggi parroco di Collemeto, si avventurò fresco di ordinazione a fare il prete nelle difficili periferie di Napoli e ci restò 10 anni).
Al Nord, con l’incalzare del diffuso benessere economico, i seminari erano già in declino e il fenomeno sarebbe ben presto arrivato anche da noi. Che siano i poveri ad aver più bisogno del divino?
Dire che sto seguendo questo percorso autobiografico con interesse è poco; lo sto seguendo con grande passione, e potrei dire che sto aspettando di conoscere con ansia l’epilogo se già non lo immaginassi con immenso dolore.
Passione e dolore: non vorrei esagerare e soprattutto non vorrei sembrasse un azzardo se dicessi che questi miei due sentimenti hanno la stessa intensità trasmessa – perché vissuta – dall’autore del testo, spirito inquieto, più che altro tormentato, tanto da meritare non una lettura a livello di semplice indagine umana o curiosità da trama di romanzo. Dietro queste pagine c’è una creatura che soffre, ed io – pur non essendo un consacrato, pur non essendo mai stato in seminario o conventi di sorta, ma per vivere con la netta sensazione di essere stato l’una e l’altra cosa in una precedente vita – senza fraintendimenti di sorta dico pubblicamente di amarla senza condizioni perché ne comprendo tutti i moti interiori sedimentati in tanti anni di rimurgino, dettato da un odio-amore testimoniato da tanti ma tanti particolari che non possono essere semplici ricordi o testimonianze di un tempo o di una condizione di vita.
Lo foto conservate quasi morbosamente non sono pezzi di carta riproducenti immagini di volti o di semplici figure legate alla propria vita da una comune esperienza (e se lo fosse rivela che l’esperienza è stata più che traumatica); così come il ricordare o averne a suo tempo annotato i nomi di tutti i compagni e superiori, compresi i paesi di provenienza, non può far parte di una normale pagina memoriale o diaristica. Il tutto fa parte di un qualcosa che deve aver lasciato un segno così profondo – sicuramente più di una ferita – nella psiche del protagonista da condizionare tutta l’esistenza.
Quella “cotta”, il cui “bianco” rappresentava “il colore dell’alba”; quelle “liturgie minuziose”; gli “antichi e severi canti gregoriani”; “l’abside” con i suoi “ignari labirinti”; i “profumi d’incenso”; e soprattutto quel furto della “adolescenza”, non sono emozioni venute a galla nel corso di una rievocazione autobiografica, scritta così, magari per fare piacere agli amici di “Spigolature Salentine”: sono brandelli di quella “cotta” invisibilmente indossata giorno dietro giorno per tutta l’esistenza, forse sognata con risvegli da incubo, forse simbolo di una persecuzione traumatica che in certe notti non ti fa neanche prendere sonno.
L’amicizia, quella vera, titolare di tutte le complicità esistenziali, non può nascere così, da un momento all’altro, fra due persone. L’amicizia è come l’amore, anzi è amore senza sesso ma è amore, per cui affinché avvenga deve succedere quel quid arcano inaccessibile a noi comuni mortali. Ho fatto questa dissertazione per concludere dicendo che mi sarebbe piaciuto essere per Alfredo Romano quell’amico confidenzialmente fraterno che chi più chi meno abbiamo avuto tutti nel corso dell’adolescenza.
Come amico, intanto chiedo scusa ad Alfredo se ho detto qualcosa d’improprio o comunque di inesatto.
Gentile Nino Pensabene,
sono un po’ lusingato dall’interesse che sta suscitando la storia di un ragazzo seminarista. E’ difficile che qualcuno ne scriva, forse per pudore, forse perché non sarebbero storie da raccontare, quasi fossero imbarazzanti. Effettivamente, per quanto io sia un bibliotecario di lungo corso, non ho trovato pubblicazioni in merito. Sinceramente ho un rapporto abbastanza sereno col mio passato, benché travagliato (mettiamoci dentro pure il seminario, ma la lista sarebbe lunga). Ma dalla vita e dalla sorte ho avuto anche il bello: gli amori, le passioni per la letteratura, la musica, il canto, il lavoro, gli amici, perfino la cucina salentina ereditata da mia madre. Potrei dire, parafrasando Pablo Neruda: Confesso che ho vissuto! E, se tornassi indietro, rifarei lo stesso percorso. Perciò, nel bene e nel male amo ciò che sono stato e non considero il seminario un incidente di percorso, ma una tappa della mia formazione: se sono quel che sono lo devo anche al seminario, per cui ne parlo e ne scrivo senza animosità, senza volermi vendicare di chicchessia. Sicché i “superiori” del seminario e i miei ex compagni sono per me come tanti personaggi che si muovono, al ricordo, come sulla scena di un palcoscenico. E si sa che uno scrittore ama tutti i suoi personaggi. Mi è capitata l’occasione di scrivere questa storia, nata casualmente da una conversazione con Marcello Gaballo. Non mi sono tirato indietro e, in fondo, non mi dispiace poter dare testimonianza della… vita ai tempi del seminario quando le regole cui sottostare erano le stesse che vigevano secoli prima. Sono come “l’ultimo dei Mohicani”, perché, da lì a qualche anno, tutto sarebbe cambiato, il diffuso “benessere” era alle porte e anche per i seminaristi si sarebbero aperti valichi inattesi di libertà, di costume e di pensiero.
Odio-amore per il seminario? Alzi la mano chi non si macera con qualche odio-amore (ma la vita, non è tutto un odio-amore?) Lei ha scritto ciò che ha sentito di scrivere e non c’è niente che possa avermi mortificato, anzi sono stato sorpreso benevolmente per ciò che la mia penna Le ha suscitato e considero ciò un bel gesto di amicizia. Ho anche capito che Lei è un poeta. E i poeti non mangiano mai da soli i bei frutti maturi.
Alfredo Romano
[…] http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/06/25/piccoli-seminaristi-crescono-terza-parte/ […]