Dai funerali di paese a Totò

Dal carru fuci-fuci a Totò

di Armando Polito

In passato i meno abbienti, già in difficoltà di fronte alla vita, non potevano certo permettersi per i loro familiari un servizio funebre normale e perciò sfruttavano quello che, in contrapposizione al funerale di Stato, potremmo chiamare funerale di paese. L’associazione di queste due idee, però, riguarda  solo il fatto che in un caso e nell’altro è la collettività ad assumersi le spese (almeno credo…), restano fuori tutti gli altri riferimenti esclusivi del funerale di Stato (importanza istituzionale del defunto o, in caso di normale cittadino, eccezionalità delle cause della morte; solennità; partecipazione di autorità; immancabili discorsi…).

Dunque, per i poveri c’era il carru fuci-fuci (a questa formazione sono analoghe le più moderne ed allegre gelato lecca-lecca, tagliando gratta e vinci, vacanza mordi e fuggi, etc.) che aveva (lo dice lo stesso nome) una funzione opposta a quella dei treni delle nostre ferrovie: portare al più presto possibile a destinazione il viaggiatore.

Naturalmente il carro in questione era molto simile al modello base delle moderne automobili che fino a un decennio fa avevano di serie  solo il motore e le quattro ruote (già quella di scorta era un optional): una sorta di traballante carretto tirato da un malandato cavallo e manovrato, a ritmo di uno sgangherato rock and roll diretto dalle innumerevoli buche che allora, proprio come oggi, erano il comune denominatore delle strade cittadine, da un conducente preoccupato solo di far durare il meno possibile la vergognosa e scomoda (per il suo sedere) operazione.

Tutt’altro carro e tutt’altra musica accompagnavano, invece, nel suo ultimo viaggio chi poteva permetterselo: insomma, era come passare dall’effetto comico di un filmato girato a 10 fotogrammi al secondo a quello, se non tragico, enfaticamente solenne di un altro girato a 50 fotogrammi al secondo, rappresentanti entrambi la stessa realtà, ma con ambientazioni, costumi e attori diversi.

E oggi? Il pagamento dilazionato a tasso 0 proposto anche dalle più oculate imprese di pompe funebri ha fatto fuori il carru fuci-fuci sostituendogli un vasto ventaglio di offerte (per rispetto della morte evito di scendere nei dettagli) la cui analisi e valutazione attenta è, oltretutto,  praticamente impossibile non solo per difficoltà di comparazione (come succede per le tariffe telefoniche) ma soprattutto per la deperibilità del caro estinto; anche la Chiesa, poi, come in passato, fa la sua parte mettendo a disposizione un numero variabile di preti e un’ampia tipologia di messe, che presuppongono, naturalmente un tariffario eufemisticamente chiamato libera offerta…

Di fronte alla morte siamo tutti uguali: affermazione, come tante altre con cui ci sciacquiamo la bocca, che alla luce di quanto appena detto, appare idiota, perché non corrispondente alla realtà dei fatti.  E allora è idiozia anche la sua rappresentazione artistica più popolare,  la poesia ‘A livella, di Totò? Se non è idiozia, dirà qualcuno, è senz’altro una contraddizione, un’incoerenza, pensando alle cifre pazzesche che il grande artista dovette spendere per vedersi riconosciuto, insieme con altri, il titolo di principe di Bisanzio.

Né idiozia né contraddizione, né incoerenza, nemmeno, aggiungo io, umana debolezza: Totò scrisse la sua poesia dopo (sottolineo dopo) essere riuscito ad ottenere   il  riconoscimento  ufficiale  della  sua  nobile  origine; dunque, è  la cronologia a fare giustizia di questa presunta contraddizione, conferendole il timbro di quella che secondo me è la forma primaria e forse più alta della genialità: l’autoironia, sincera e non strumentale.

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