Proponendo la poesia di Giulietta Livraghi Verdesca Zain “Saggio sulla “morte” del contadino”, SOS per lo stato di abbandono in cui versa la campagna
di Nino Pensabene
Il titolo stesso della poesia “Saggio sulla ‘morte’ del contadino” lascia già da sé immaginare che il testo non tratti un tema di semplice natura sentimentale, quale la delusione per un amore perduto, la nostalgia per un figlio lontano o il dolore per la scomparsa di una persona cara.
L’etnoantropologa salentina, lasciando per un attimo la narrazione e lo studio della civiltà contadina di fine Ottocento, ridiventa cittadina inserita a tutti gli effetti nel contesto sociale dell’oggi e, riappropriandosi della sua entità giornalistica e attraverso i mezzi poetici – i primi con i quali si è affacciata al mondo dello scrivere – lancia un S.O.S. a favore dell’agricoltura, mettendo implicitamente in luce lo stato di abbandono in cui ancora oggi versa la campagna. Sì, la poesia è stata scritta nel 1995 ma a questo punto possiamo dire “peggio!” perché da allora le cose non solo non sono migliorate ma sono addirittura precipitate: man mano sono venuti a mancare quei pochi contadini anziani rimasti sulla breccia (la Giulietta li chiamava “gli eroi dell’oggi, gli ultimi eroi”) e la terra langue in un’agonia alla quale sembra nessuno di noi voglia partecipare.
Cosa utile, necessaria e meritoria – credendo, però, forse, sia questa l’unica forma di fare cultura – siamo tutti con lo sguardo rivolto al passato: con un binocolo in mano andiamo alla ricerca del monumento dalla pietra caduta, dell’altare dall’angolo scalfito, dell’affresco sbiadito per il troppo sole o la troppa pioggia, di un libro antico fra le cui pagine possiamo trovare un insetto, dalle culture e tradizioni in genere delle popolazioni passate, ma tralasciamo molti dei problemi che assillano il presente sociale (che – si badi bene – non si esaurisce alla visione turistico-ambientale) e dei quali, un giorno, i nostri figli potranno chiederci conto. Cito, tanto per fare qualche esempio, la spaventosa immigrazione di massa con la relativa miseria, alla quale si aggiunge la miseria di casa nostra a causa della dilagante disoccupazione giovanile; l’inquinamento dei mari e dell’aria con annesso programma di orientamento energetico-nucleare; e non ultimo, ma fra i più importanti per il nostro Salento e il Sud tutto, il disinteresse assoluto – come se non facesse parte della nostra realtà quotidiana ed esistenziale – nei confronti dell’agricoltura e, intrinsecamente, della campagna.
Per tornare al tema della poesia in oggetto, i tempi di “Arneo” sono ormai Storia consolidata, e storici sono pure i cortei attraverso i quali – facendo demagogia al fine di accaparrare voti – si prometteva ai contadini il miraggio di realizzare il loro atavico sogno: quello di coltivare un pezzo di terra in proprio, senza sottostare al giogo crudele e sfruttatore di un padrone ripetendo all’infinito: “Fatìu, fatìu, pi lla scòrsa ti l’uéu” (Non faccio che faticare per avere in ricompensa soltanto il guscio dell’uovo).
“Abbasso i padroni… la terra è dei coloni…”
Coloro che come me non sono più giovani ricorderanno l’affannosa e studiata strategia di questi affascinanti cortei, caratterizzati dai due elementi più plagianti nei confronti di un popolo schietto quanto non istruito e desideroso di riscatto sociale: coreografia e tono vocale , cioè, il secondo, caratterizzato dalla perfetta cadenza del tuonante sglogan “Abbasso i padroni… la terra è dei coloni…” e, il primo, dal teatrale avanzare con passo anch’esso cadenzato, quasi militare, accompagnato dall’altrettanto teatrale esibizione delle enormi bandiere rosse svolazzanti da chilometrici bastoni.
Perché il progetto politico è fallito? Perché è fallito il sogno dei contadini? Perché inutile sarebbe stato dare la terra ai contadini senza restituire i contadini alla terra, ovverosia senza una rivoluzione programmatica di migliorie che inserisse i futuri padroni-contadini, dicat coltivatori diretti, nel contesto sociale attuale. Inutile sarebbe stato dire: “Questo pezzo di terra è tuo: ora sei anche tu un proprietario… cavatela da solo, cerca di fare da infermiere a questa moribonda che è l’agricoltura!”, quando già si era avuto l’esperienza di Arneo! Se si voleva agricoltori riscattati, non più visti nella declassante accezione di contadini schiavi come vengono descritti dalla Giulietta nei suoi lavori di etnoantropologia di matrice ottocentesca, bisognava sì creare degli uomini liberi, proprietari della terra che coltivavano, ma operatori di un’agricoltura – aggiornata, sostenuta da leggi promotrici – nel cui contesto le emancipazioni economiche e i diritti civili venissero ad essere equiparati a quelli di cui godono, faccio per dire, gli impiegati del Catasto o gli infermieri di un qualsiasi ospedale, i bidelli che operano nella scuola o gli operai che lavorano in fabbrica.
Sì, è sotto gli occhi di tutti, che ci sono ancora persone che si dedicano alla terra, e guai per tutti noi se non ci fossero; ma la maggior parte lo fanno come hobby, svolgendo altrove un altro lavoro ben remunerato (magari impiegatizio), alla lontana di preoccupazioni o prese di coscienza agricole; altri, che magari si dedicano alla coltivazione degli ortaggi, sono dei pensionati che lo fanno per passatempo e per arrotondare; e gli uni e gli altri con il validissimo supporto coadiuvante degli extracomunitari. La terra, però, non vuole dopolavoristi interessati solo al valore del prodotto, così come non sa che farsene dei frettolosi economisti impiegati della zolla… la terra vuole gli innamorati della zolla, così come lo erano gli antichi contadini, quelli che con le loro mani callose l’accarezzavano carpendone tutti gli umori e le potenzialità sia di domande concimatorio-nutritizie che di risposte produttivo-redditizie. E se la terra rispondeva è perché ne percepiva la trasmissione amorosa di animi semplici e votati al rispetto di ogni primordiale sacralità, sacralità che andrebbe ripristinata attraverso il rispetto dell’ecosistema, per prima cosa combattendo il già avanzato stato di inquinamento con una forte, anzi assoluta, rivalutazione dell’agricoltura biologica: niente dunque diserbanti, ma niente più anche pesticidi, antiparassitari o anticrittocramici. Tutto ciò che è “chimico” dovrebbe essere bandito dalla campagna, e sì per amore della terra, ma di riflesso per amore dell’uomo, della società in cui viviamo, di noi stessi. A tua madre o a tuo figlio daresti mai del veleno? E inoculandolo nella terra o spargendolo sulle erbe o sugli alberi o sui frutti non è come avvelenare tua madre, tuo figlio, tuo fratello o suicidarti? Ci siamo reso conto che di pari passo all’impoverimento dell’ozono, si è impoverita la terra? La terra è priva di sali, è priva di zuccheri, la terra è morente! Basta assaggiare un frutto per accorgersene che non ha per niente il sapore di una volta!
La terra va amata, la terra vuole essere amata, perché, non dimentichiamolo mai, rientra di diritto in quel complesso operativo che è l’amore cosmico, l’amore che non può che generare amore. Chi dei giovani sa qual’era il rapporto fra uomo e terra, fra il seme che s’imbuca e l’occhio che ne aspetta il germoglio, fra la mano che versa l’acqua del secchio e la zolla assetata che la beve e, rispondendo, appunto, al motto latino “Ut Ameris amibilis esto”, avvertendo cioè l’amore dell’uomo, lo ricambia attraverso lo slancio produttivo?! E chi, anche fra gli adulti, sa coscientemente quanti sono i fondi rustici che non vengono più coltivati? Fondi ereditati da persone che non essendo in grado di dedicarsi alla campagna vorrebbero venderli senza però trovare alcun acquirente, in quanto – per i suddetti motivi – nessuno dei giovani vuole più – con tutte le ragioni – avere da fare con la terra?
Fatevi qualche passeggiata a piedi nelle campagne e ditemi se la terra di questi fondi abbandonati non sembra stia a piangere, se non sembra voglia tendervi le mani supplicandovi di ararla, di rinvigorirla, d’ingravidarla, di riportarla agli antichi splendori!
Al di là del rapporto agricolo, ci siamo dimenticato cosa è stata, per millenni, la terra per l’uomo e l’uomo per la terra ? Quale simbiosi fra le due energie vitali c’è stata nella pregnanza del dare e avere? Adesso i cimiteri sono pieni di scatoloni di cemento in cui veniamo tutti sigillati, ma ricordiamoci quel tenero quanto profondo interscambio d’amore dove, se la terra diventava grembo materno per accogliere in estremo e dare pace all’involucro carnale dell’uomo, l’uomo, mediante i suoi resti, si faceva a sua volta humus, rinata e depurata energia per ngrasciàre (nutrire, ingrassare) la terra affinché questa potesse, in lenti, millenari ma continui assorbimenti veicolanti, meglio produrre facendosi – nell’avviato ingranaggio – alimento per l’umanità vivente! Non a caso son voluto scivolare in questa apparentemente inappropriata divagazione: se l’amore degli uomini per la terra era così forte, molto si deve a questa magia naturale, che agendo positivamente sul flusso e riflusso di energie vitali, condizionava felicemente l’uomo ad essere presente nel mondo come il primo giorno della creazione: fusione completa fra terra, uomo e animali, tenendo presente come e quanto questi ultimi partecipassero attivamente al suddetto flusso e riflusso attraverso il lavoro nei campi e la concimazione biologica.
COPERTINO, LECCE, BARI, ROMA.
Io – umilissima voce – sono convinto che in seno all’umanità ci sono moltissime persone, e soprattutto giovani, con quella ricchezza interiore ancora in grado di amare la terra come e forse meglio dei nostri amati defunti contadini, ma sta agli Assessorati Regionali, allo Stato, a tutti gli Organi Competenti, insomma, risvegliarsi da questo torpore mentale legato alla vergogna della terra e ricreare una giovinezza agricola degna dei tempi emancipati in cui viviamo. Ormai abbiamo dimostrato a tutti di non essere furèsi, di non essere cafùni, di non essere poveri, di non appartenere, insomma, a quella tanto disprezzata civiltà di “terroni”. Ormai, con la sicurezza di un pezzo di carta in mano, possiamo testimoniare non solo all’Italia ma al mondo intero di essere tutti dottori, per cui, superato il complesso dell’appartenenza a un popolo ignorante, si potrebbe ritornare alla terra a testa alta, così come si sta facendo già col dialetto.
Voi, genitori degli attuali giovani, ricordate negli anni 70-80 del Novecento? Era segno di retrività e ignoranza non solo parlare in dialetto ma anche semplicemente citare un proverbio… Coloro che erano appartenuti al mondo campagnolo dovevano parlare in italiano per dimostrare di essere persone civili e istruite, non importava con quali storpiature e ridicolaggini varie, l’importante era sembrare gente evoluta, e c’era anche chi calcava nell’accento come appena arrivato da Milano o Torino, alla stregua, appunto, delle donne che d’estate andavano a lavorare negli alberghi delle zone turistiche del Nord. In questo quadro, guai se i figli, tornati a casa, pronunciavano un verbo dialettale: mazzate! Il parlare in dialetto veniva visto come opera del diavolo, nel contesto di un mondo in cui si erano e si sono invertiti i termini di bene e di male. A Londra o a Parigi si facevano andare i figli affinché, tornando, potessero fare gli snobs snocciolando qualche parola delle lingue straniere, ma ai nonni contadini era severamente vietato parlare per non far sentire ai pargoli ‘impure bestemmie’. Oggi, al contrario, una volta dimostrato che sappiamo parlare la lingua italiana, stiamo man mano – non importa se per il momento è solo motivo di curiosità, sciccheria o stupida snobaggine – tornando al dialetto.
Io sono sicuro che superate le frange degli ultimi complessi d’inferiorità, ognuno sentirà la gioia di ritrovare la spontaneità nell’esprimersi con la lingua madre; il dialetto trionferà, così come un giorno ci sarà il trionfo della terra. Tutte le migliaia di giovani disoccupati, che – se si perseguiterà nel mito della laurea – col tempo aumenteranno, dovranno in qualche modo trovare lavoro, e la terra potrà ritornare ad essere madre, l’importante che gli organi competenti ne prendano coscienza riscattandola dallo stato di vedovanza in cui l’hanno imprigionata e, tornando a rendere grazie alla tanto rinnegata Provvidenza, sappiano sfruttare le parole di Cesare Beccaria ricreando la nuova civiltà agricola. Solo così potremo debellare la disoccupazione nel Mezzogiorno, solo così potremo dire di essere una nazione economicamente evoluta, un popolo libero, non schiavo di pregiudizi e complessi.
Ecco la poesia
“SAGGIO SULLA ‘MORTE’ DEL CONTADINO
Reperto non catalogato
nei vanti della storia
non hai museo da dove avanzare
i tuoi diritti alla primogenitura
del sudore convertito in pane
eppure le tue radici
sono intrecciate a quelle di Dio
fin dal terzo giorno della Genesi
quando – a precorrere il tuo cono d’ombra –
sul muto proscenio della terra
esplose il canto della clorofilla.
* * *
Come Agamennone
anche tu ti sei portato dietro
una maschera d’oro
– cesellata dal sole fra le biade –
ma la tua “Micene”
non interessa agli archeologi di Stato
incapaci di valutare
i tesori di una reggia
d’alberi d’ulivo
e già delusi
al pensiero di scoprire una porta
non vigilata da leoni a lamine lucenti
ma da buoi
inghirlandati solo di spighe e grappoli d’uva.
(“L’arte dunque di dirigere e incoraggiare
gli uomini, acciò cavino il migliore
partito possibile dalle terre, sarà la base
fondamentale d’ogni operazione economica;
quest’arte chiamasi agricoltura politica:
primo oggetto di economia pubblica”
– diceva Cesare Beccaria
mai pensando allo specchietto deformante
che il futuro avrebbe appeso
all’architrave dei compromessi…).
Tu che non conoscevi altre vocali
se non quelle dei semi
e ogni giorno
scrivevi la tua pagina col vomere
affidandone ai grilli la lettura
oggi avresti geroglifici di fuoco
da incidere
– a tatuaggio di vergogna –
sulla fronte di quanti
hanno manomesso l’ago della bussola
consegnando le sorti della zolla
alla rotta funeraria delle sabbie mobili.
* * *
Dio
l’uomo
la terra
il sudore
il pane.
Sulla regalità di questo atavico organismo
è caduta la nebbia della favola
e si è scoperto che la Bibbia
ha mani ruvide
inadatte alla setosa carezza delle banconote
– unica credenziale
per essere elevati agli onori della tutela.
(giugno 1995)
Al di là della razionalità espositiva e dello studio del problema – che l’autrice presenta con competenza pur se celato nella metafora -, questa poesia è un grido di dolore che nasce dal suo aver dedicato quasi tutta l’esistenza al mondo agricolo (nel senso metaforico, per gli studi etnoantropologici condotti sulla civiltà contadina, e nel senso reale per essere stata nell’arco di più di mezzo secolo titolare [in un rapporto di fraternità e giustizia con tutti i dipendenti] di un’azienda agricola* a Copertino); è un manifesto, riprendo, che i giovani delle popolazioni salentine – per la maggior parte di discendenza contadina – dovrebbero appendere nelle loro case in rispetto alla terra che ci nutre, in memoria del sangue di sudore versato fra le zolle dai loro antenati, e come segno di lutto per un potenziale lavoro sottratto alle necessità giovanili e comunque popolari.
Da un punto di vista ecologico-ambientale ed economico-mercantile è pure un manifesto che interessa tutta la storia locale: a condanna? a giustificazione? E di chi? Dipende da ciò che ci riserverà il futuro.
*
Affinché non sembri che a spingermi a scrivere questo articolo siano stati interessi a carattere personale, preciso di non possedere un solo centimetro di terra.