Càusi e stiani (pantaloni e gonne)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 CAUSI E STIANI  (PANTALONI E GONNE)

 

 di  Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) “La strata ncursàta spenta l’andòre…” (“nella strada affollata il profumo svapora…”), si diceva a inculcare che una donna onesta non doveva oziosamente gironzolare per il paese, pena la perdita delle sue qualità morali; e continuando nello snocciolare dei proverbi a carattere formativo, si affermava che “Lu passìu ti la fèmmina ete l’urtàle” (“La passeggiata, la donna può farsela sfaccendando nel cortiletto di casa”), dichiarando “Bbinitétta la fémmina ca tàe palòra sulu a lla nnàccara ti lu tilàru”  (“Benedetta la donna che conversa solamente col ticchettio del telaio”), sino a prendere spunto dalla sciorinata del bucato per ricordare che “Càusi e stiànu no bbànu mpisi a lla stessa corda ci ti miènzu no nc’ete nnu chiasciòne” (“Pantaloni e gonna non vanno appesi allo stesso filo se fra un indumento e l’altro non si tende un lenzuolo”, cioè un uomo e una donna non devono stare a tu per tu se fra di loro non c’è vincolo matrimoniale).

E non si creda che queste fossero formule assolte solo in linea di principio, ché anzi trovavano nella messa in pratica una più espansa misura di responsabilità, quasi il preservo morale della donna non fosse di esclusivo interesse familiare, ma riguardasse l’intera collettività quale elemento connotativo della stessa. Nel comportamento del singolo, infatti, il paese veniva a riflettersi, e per così dire a saggiarsi, nel vigile timore che uno sgarro individuale si rivelasse azione corrosiva al buon nome della popolazione, dando motivo agli abitanti dei paesi vicini di forgiare etichette sarcastiche o addirittura offensive. Un danneggiamento morale che, nel caso specifico, avrebbe avuto delle spiacevoli conseguenze pratiche, rivelandosi bastone d’intralcio nell’accasamento delle ragazze cu strìi ti fore paése (con giovanotti residenti in altri paesi). Di qui la necessità per i capifamiglia di esonerare le donne da ogni incombenza che offrisse ragione di sortita, per cui non solo si privavano del loro aiuto nel vendere frutta e verdura al mercato o nel recapitare  la minéscia ti fogghe a ccasa a llu patrùnu (il fascio di verdure a casa del padrone), ma si accollavano tutti quelli che erano gli abituali – od occasionali – disbrighi esterni, quali fare la spesa, andare a chiamare il medico, passare dallo speziale o portare dal calzolaio le scarpe abbisognevoli di risolatura.

Una vera e propria estromissione femminile dalla vita pubblica, insomma; regolamentazione del resto ormai vecchia di secoli e perciò connaturata col sentire stesso delle donne, che spontaneamente ne rimarcavano i contorni: per recarsi in chiesa, alle veglie funebri, a visitare un ammalato o una puerpera, si industriavano a come compiere il tragitto percorrendo strade secondarie, scrupolosamente scantonando da quelle principali e soprattutto dalla piazza, che attraversavano solo se debitamente accompagnate dai rispettivi mariti. E malgrado le vie, per l’inesistenza del traffico, si offrissero ai loro passi come altrettanti campi aperti, non si azzardavano mai a camminarvi nel centro, bensì rasentavano il più possibile i muri, quasi prevalesse in loro l’inconscio desiderio di apparire fagocitate dall’ombra.

Nell’andare e tornare dalla campagna, infatti, a parte l’immancabile scorta dei loro uomini o – se si trattava d’ingaggio a gruppo – di un anziano remunerato a tal scopo dal padrone, erano abituate ad attraversare il paese nell’incerta luce delle albe e nell’ovattatura dei crepuscoli, per cui quella volta che si trovavano ad affrontarne le strade in pieno giorno soggiacevano  a un senso di verecondia, specie se si vedevano soppesate da occhi maschili. In tal caso, a scanso di equivoci, occorreva dichiarare la propria onestà, e come qualche anziana vedova in servizio presso una casa signorile, eccezionalmente trovandosi a comprare il pesce al mercato o la soda caustica nel negozio di alimentari, si premurava di precisare “Mi ttròu acquài pi ccumànnu patrunàle” (“Se mi trovo qui è solo per soddisfare al comando della padrona”), così la donna in transito per la strada, incrociando un gruppo di uomini o rasentando la bottega di un barbiere (la cui vocazione al pettegolezzo era a quel tempo virus categoriale), correva ai ripari atteggiando il viso a mestizia e sospirando come anima in pena: “Ah, nicissitàte ti la ita… lu jéntu azza quannu menu ti la spiétti!…” (“Ah, necessità della vita… il vento si leva quando meno te l’aspetti!… [Se mi trovo fuori casa, è per una sgradita  quanto inaspettata emergenza!]”). Naturalmente, compostezza voleva non si avesse mai a guardare in faccia gli uomini che s’incontravano, né tanto meno fermarsi a dar loro parola: al di là del soliloquio, fossero anche cugini, cognati o compari, non si doveva andare oltre i recisi saluti di “Bbona sciurnàta, bbon’éspira e bbonaséra” (“Buon giorno, buon vespro e buonasera”).

Come già detto, pantaloni e gonne non dovevano trovarsi a tu per tu, e l’importanza che si dava a questo assunto si può desumere dall’estremistica imposizione che donne e uomini subivano in chiesa, dove questi ultimi, privilegiati nell’occupare la navata centrale, venivano diffidati – spesso pubblicamente, dal pulpito – dal lanciare sguardi verso le navate laterali, zone che per essere più in ombra erano tassativamente riservate alle donne. (…)

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 347-349)

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