per gentile concessione di Fernando Bevilacqua pubblichiamo un capitolo di Antonio Leonardo Verri, dal suo LA BETISSA. Un doveroso omaggio a diciassette anni dalla scomparsa del poeta-scrittore salentino
Capitolo Quindicesimo
UN ADOLESCENTE CHE ABBRACCIA UNA FANCIULLA DI CUI SI È INVAGHITO, MENTRE DUE UCCELLI GIUNONICI LOTTANO DAVANTI A LORO
Lettera di Alessandro
Cara madre,
sono da due mesi in questo posto, ho solo occhi per questo congegno, questo trabiccolo, come ormai lo chiamo (due grosse e belle ali, tenui e flessuose, ma nello stesso tempo compatte e senza cera) a cui lavoro anche di notte. Notti intere, notti che in altri tempi, se ci penso adesso, avrò sicuramente perduto dietro a cose stupide, ad abitudini e o rinuncie che hanno di certo minata il mio corpo. o parti di esso, inciso obiettivamente sul mio, diciamo, spirito, o, e questo mi sembra più appropriato, sul flusso di parole che da molto tempo servo e dal quale con molto probabilità, non sono servito.
Come già sai, anche se ti sei chiesta sempre il perché io continuo a scrivere, continuo a cercare parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte strani momenti della mia vita, che molti dicono povera.
Coi risultati non ci siamo, ma questo non vuoi dire. Il più delle volte le parole che affibbio alle cose non reggono (che mi stia di nuovo assalendo quel solito tremore, quel solito magone?), pare, ti dicevo, non abbiano, le parole, appigli di nessun genere, e come niente come fosse la cosa più naturale del mondo mi restano in mano. Me le ritrovo a mucchio — pensa con quale mia sorpresa — nelle palme congiunte: Oddio, un tempo. col vigore che avevo, le buttavo in aria, aspettandomi, a terra toccata, di assistere e di gustare una di quelle meraviglie che salo il caso sa così bene tornire. Se il magico risultato non veniva, le ributtavo, e cosi via.
Un tempo tutto questa era possibile — e posso dirti che a tutta birra mi gloriavo di una spigolosità di linguaggio, di una sonorità che in molte occasioni vendevo come mia — oggi non più, oggi non più, oggi tutto questo non è più possibile dacché mi sono accorto che questa meraviglia sonora, guidata dal caso, non apporta un bel niente, nemmeno un effetto placebo, ai miei duri momenti, alle mie perdite e rinuncie, anzi una tendenziosità, uno sfinimento — questo lo conosci, come conosci il mio troppo stupore l’ostinazione a leccare bruciature che non sono nate certo con me…
Comunque, alle parole condannato, parole uso. E devo confessare, registrare i vantaggi, nonostante il vuoto a volte di cui ti dicevo, che questo usar parole apporta al mio congegno. Dipende ormai da questi due quaderni (di parole, ma anche di segni e svolazzi) la costruzione del mio congegno, il portare a buon fine la mia impresa.
Cos’è questo congegno? Presto detto, non ho nessuna voglia di girarci intorno (sono già tanti i miei rovelli!), anche se quando te lo dirò, dapprima avrò quel tuo sorriso colmo di stupore, poi qualche frase preoccupata, mista a quell’accorata imprecazione che per il solito amore ti fai morire in gola…
Niente di grosso, madre, o qualcosa di grossissimo, nient’altro che un trabiccolo che in cielo dovrà portarmi, tutto qui, ecco, nient’altro…
Ecco, oggi non penso che a questo. A volte guardo con sgomento il trabiccolo: oddio, mi dico, ma gliela farò, è tempo adesso? poi quando qualcosa comincio ad andar bene, quando qualcosa di nuovo (qualche nota, qualche formuletta) c’è da appuntare sui miei quaderni, oh allora non so che cos’è lo sgomento, e tutto è furia, tutto brilla, e io sono vivo.
Ma a che serve poesia, dicevi un tempo: a che serve il ciel o puoi dire adesso, a che questo immensa voglia di alzarsi, volare?.. Colpa anche della vaghezza, madre, dello vaghezza e della stupidità della terra, della suo porosità…
Spero solo di non restare coi miei quaderni, col mio stupore, con queste svuotate parole, con i miei propositi di volo: non altro che gioco, ripetizione, bisticcio…
Ecco, tutto qui, madre, nient’altro, nient’altro se non il solito vecchio cuore tagliato a spicchi, non ancora del tutto sbrecciato, inesploso, il solito vicariante corpo squassato dai vecchi soliti colpi di tosse, il solito inverno (col solito lardo, con le solite coteche, col solito vino), il solito mattino che cola dall’argento dei cavoli e l’urgenza in ogni cosa…
E il correre stolto, e il correre continuo, con ali bianche, quasi senza corpo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.