di Giuseppe A. Pastore
Tito Schipa nacque a Lecce il 27 dicembre 1888 e fu registrato negli elenchi anagrafici il 2 gennaio 1889 con il nome di Raffaele Attilio Amedeo. Studiò nella città natale con il maestro di canto e pianoforte Alceste Gerunda e si perfezionò a Milano con Emilio Piccolo, che lo introdusse negli ambienti chic e influenti del capoluogo lombardo. Debuttò al Facchinetti di Vercelli il 4 febbraio 1909 in Traviata, quindi si esibì a Selenico, in Dalmazia, a Savona e a Crema, dove ebbe un contratto per l’intera stagione (Zazà di Leoncavallo e Adriana Lecouvreur di Cilea). La medesima impresa lo scritturò per la stagione al Politeama di Lecce, qui riproponendosi in altre occasioni in Mefistofele e Rigoletto. Nel 1911 fu al Quirino di Roma in Don Pasquale, Werther, Zazà e Barbiere, quindi a Buenos Aires nel 1913 per la sua prima esibizione estera. Al Dal Verme di Milano cantò Tosca nella sua prima stagione più importante (1912-1913); nello stesso teatro, nel 1915, nella stagione allestita da Arturo Toscanini cantò la Traviata e Falstaff. Debuttò poi alla Scala nella stagione 1915-1916 nel difficilissimo Principe Igor e nella Manon.
Qualche anno dopo, nel 1919, in America si unì in matrimonio con Antoinette Michel d’Ogoy, che qualche decennio dopo sarà sostituita da Teresa Jolanda Borgna, in arte Liana Prandi.
Circoscrisse il suo repertorio alle seguenti opere: Don Giovanni, Il Barbiere di Siviglia, Sonnambula, Elisir d’amore, Don Pasquale, Werther, Mignon, Manon, Lucia di Lammermoor, Marta, Traviata, Rigoletto, Lakmé e Arlesiana.
Si esibì, dando prova delle sue straordinarie capacità, nei più importanti teatri del mondo e la sua attività concertistica fu molto intensa. Fu anche attore, anche se per sola passione, interpretando Vivere, con la bellissima Caterina Boratto, e Tre uomini in frac. Per diletto fu anche compositore di diverse canzoni, di una Messa e dell’operetta La principessa Liana, composta dopo la nascita della sua secondogenita.
Nel 1935, dopo una lunghissima assenza, tornò a Lecce per dirigere una delle più importanti stagioni artistiche. Vi tornò in diverse altre occasioni, congedandosi definitivamente nel 1954, quando interpretò il trasognato Nemorino dell’Elisir.
Morì a New York il 16 dicembre 1965 e la sua salma fu traslata in Lecce il 3 gennaio dell’anno successivo, dove si celebrarono le esequie nella basilica di S. Croce, alla presenza di un incredibile numero di concittadini ed estimatori. I resti mortali riposano nel cimitero leccese, accanto alla chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo.
Fin da giovane, a Napoli, alcuni anni prima della guerra, ho conosciuto Tito Schipa quando veniva da mio padre, di pochi anni più grande, e trascorrevano le ore a parlare di andamenti, di fraseggio, di espressione, di tutto quello che un cantante può fare per impreziosire le proprie esecuzioni.
Schipa aveva grande stima di mio padre che, da giovane, era stato direttore d’orchestra prima di darsi all’insegnamento in Conservatorio. Durante quelle visite ogni tanto si ascoltava Schipa che accennava l’inizio di un’aria oppure mio padre che, al pianoforte, iniziava un tema dell’opera in discussione. Le sedute erano lunghe; poi Schipa andava via e la vita familiare riprendeva il suo ritmo abituale che aveva avuto una pausa per non disturbare la conversazione d’arte dei due maestri.
Ho rivisto, poi, il grande cantante al teatro di S. Carlo e restai ammirato per la sua interpretazione del Werter ed ebbi la stessa sensazione che avevo provato ascoltando Schaliapin: tutto il palcoscenico del teatro si riempiva con la figura del cantante.
“Tra i grandi cantanti-interpreti – scrivevo nel 1989[1] – Tito Schipa ha ereditato tutto il sapere dei grandi cantanti del passato, tutta la loro potenza espressiva, tutta la loro esperienza. Chi non ha ascoltato le sue interpretazioni non conosce il canto. Un Nemorino, unico nella storia del teatro: umile innamorato, folle, avrà tali accenti accorati e tale letizia interiore nell’aria: “una furtiva lacrima…” che non vi è stato pubblico, in Italia e all’estero, che non ne abbia chiesto il bis. Tale era la potenza di quella interpretazione che il capolavoro di Donizetti veniva sommerso dall’interesse che aveva destato quella esecuzione…”.
Poi, purtroppo, venne la guerra e nel 1943 mi trovai a Roma da militare, dove ripresi i contatti con dei vecchi amici di mio padre. In quella famiglia vi erano tre figli, due maschi, uno era stato anche mio compagno in Conservatorio a Napoli, ed una ragazza che studiava canto. Il nonno di questi miei giovani amici era amico di Schipa che, in quel periodo, si trovava a Roma. Il nonno prese appuntamento con Schipa per fargli ascoltare la nipote e avere un giudizio dal grande Maestro. Mi unii al nonno ed alla nipote e andammo da Schipa che ci ricevette in un salone arredato con gusto; al centro un magnifico pianoforte a coda. Dopo i primi convenevoli di rito, Schipa disse alla giovane cantante: “che mi fai ascoltare?”. La giovane esordiente prese un paio di arie; Schipa si mise al pianoforte ed accompagnò la cantante con grande maestria, non da pianista, certo, ma da musicista, sostenendo la voce nella intonazione e nel ritmo. Io ne restai meravigliato! Avevo scoperto uno Schipa che, forse, pochissimi conoscevano. La giovane cantò tre arie, poi Schipa la guardò a lungo in silenzio e disse: “Hai una bella voce, canti bene, ma non farai mai niente col canto. Pensa a fare qualche altra cosa”. Giudizio preciso, esatto, che si avverò in pieno. Seppi che aveva fatto audizioni in vari teatri, alla EIAR dell’epoca ottenendo sempre lo steso risultato.
Finita la guerra nel 1950 venni a Lecce, dove per trent’anni sono stato direttore del Liceo Musicale pareggiato prima, del Conservatorio di Stato poi. In questo periodo ho visto Schipa molte volte; anche perché veniva spesso in quello che lui chiamava “il mio liceo”.
Nell’ultima estate che Schipa passò a Lecce, nel primo pomeriggio faceva quella che i leccesi chiamano la passeggiata “delle quattro porte”; quando passava davanti al suo Liceo entrava, se ne veniva in direzione, si sedeva su di un divanetto di vimini e riposava un poco. In generale, dopo i saluti, le sue prime parole erano: “Direttore, continui a lavorare e non si occupi di me; io mi riposo un poco”. Ma si poteva pensare che io ignorassi la presenza di un tanto personaggio? Si cominciava a parlare di musica, di storia, di arte; ma, quasi sempre, Schipa amava parlare delle opere che aveva interpretato e che ogni personaggio era la conclusione di lunghi studi e lunghe ricerche sulla vita, sul carattere, sulla personalità dell’uomo che nella sua interpretazione faceva rivivere. Nel momento, mi diceva, che usciva sul palcoscenico, non era più Tito Schipa, ma diventava il personaggio che riviveva in lui.
Infatti, l’ho ascoltato nel Werter più volte, faceva gli stessi gesti, le stesse espressioni del volto, le stesse emissioni di fiato esattamente negli stessi punti.
Passò l’estate e l’amico improvvisamente partì quasi senza salutare. Seppi che l’America gli aveva aperto, anzi, spalancate le porte e gli aveva fatto aprire una scuola di perfezionamento di canto, ottenendo pieno successo. Poi l’amico tornò in patria, tornò nella sua Lecce, ma chiuso in una bara. Il lungo corteo sostò avanti al “suo Liceo”; prendemmo i quattro cordoni ai due lati del carro io, il presidente del Liceo musicale giudice Gustapane, il direttore del Liceo musicale di Taranto e quello di Foggia.
Lo accompagnammo al cimitero, dove ora riposano le sue spoglie terrene di una voce immortale dal timbro unico, dalla intonazione precisa; ma, principalmente, con una musicalità ed un carattere eccezionale.
Passò del tempo e mi giunse una strana notizia. Non ho mai potuto conoscerne la veridicità, spero proprio che sia una notizia falsa; sentii dire che, prima di partire per l’America Schipa aveva chiesto alle Autorità locali di aprire una scuola di perfezionamento di canto, come quella che aveva avuto in America. Sempre secondo quanto appresi, le Autorità locali dettero un netto rifiuto. Sarà vero? Mi auguro proprio di no. Su questo argomento preferisco non fare commenti.
Con la morte di Schipa io resto con un caro ricordo. Il ricordo di un amico, di un artista, di un uomo semplice e buono.
Con la morte la voce terrena di Tito Schipa si spense; ne resta l’eco che vaga nei cieli infiniti, attraversando mondi a noi sconosciuti, portata da arcobaleni intrecciati, per sempre, per l’eternità.
[1] Cf. C. A. Pastore, L’arte del canto dalle origini a Tito Schipa, in “Teatro Politeama Greco di Lecce, Stagione Lirica 1989”.
In merito alla presenza di Tito Schipa a Nardò, da un testimone presente al fatto, mi è stato raccontato un simpatico episodio avvenuto alle 4 Colonne verso la fine degli anni 50. Come ben si sa, negli anni 50 e sino alla fine degli anni 60 le nostre 4 Colonne erano un’attrattiva d’elite che raccoglieva la crema della buona società salentina. Durante l’estate ogni sera si esibivano artisti di spicco che allietavano le serate dei nostri vip. Una sera, per allietare la cena dei commensali ospiti del ristorante, si esibiva una modesta orchestrina la quale tra una portata e l’altra suonava allegre composizioni. All’insaputa di tutti, in un tavolo insieme ad una distinta comitiva leccese, in modo anonimo, era seduto il famoso Tito Schipa, il patron delle 4 Colonne ing. Caroli lo riconobbe, e con stile e garbo che lo contraddistingueva, si avvicinò al tavolo per chiedere ai commensali se erano contenti del servizio e delle portate che le venivano presentate. Con l’occasione si presentò al famoso tenore e gli chiese se era disponibile a fare una piacevole improvvisata a tutti i commensali del locale, richiesta che fu accolta con piacere. Intanto gli orchestrali stavano facendo pausa ed erano seduti ad un tavolo per cibarsi, L’ing. Caroli chiamò un suo collaboratore e dette disposizioni di andare dai musicisti per fargli sospendere la cena e mettersi subito sul palchetto con i loro strumenti per iniziare a suonare.I musici respinsero la loro richiesta dicendo che avrebbero ripreso a suonare solo quando terminavano la loro cena. Il fedele collaboratore riferì al patron Caroli del loro rifiuto e questi inviperito si recò dagli orchestrali ordinando loro di riprendersi immediatamente gli strumenti e andare via perchè non aveva più bisogno di loro e non intendeva averli più nel suo locale, invitandoli ad andarsene subito, cosa che con il loro disappunto avvenne.
Schipa fu avvisato che l’orchestra era stata cacciata via e lui senza perdersi d’animo salì sul palchetto e senza accompagnamenti musicali tra la sorpresa e il delirio di tutti i presenti si esibì in alcune delle sue più belle canzoni.
Tutto ciò avvenne gratuitamente, a parte il costo della cena che l’ing. Caroli offrì a lui ed ai suoi amici che lo ospitavano al loro tavolo.