di Rocco Boccadamo
Durante la seconda guerra mondiale, il Salento, forse perché privo di obiettivi o insediamenti militari di particolare rilevanza, rimase per fortuna indenne da attacchi aerei e correlate operazioni di bombardamento.
Pur tuttavia, di tanto in tanto, specialmente nella fase conclusiva del conflitto, formazioni di velivoli si trovavano a sorvolarne il territorio, magari per semplice coincidenza con la rotta degli spostamenti da una base all’altra o delle missioni dirette ad obiettivi situati in aree più lontane.
All’epoca, lo scrivente, bimbetto di 3-4 anni, viveva, in seno alla famiglia, nel paese natio verso il sud della provincia.
Nel piccolo centro, non esistevano, ovviamente, veri e propri dispositivi d’allarme, né rifugi appositamente attrezzati per il caso di attacchi dall’alto. In ogni modo, funzionava ugualmente – chissà su quali basi o sistemi – un misterioso tamtam che si spargeva a macchia d’olio fra la popolazione e anticipava l’avvicinamento delle squadriglie volanti.
Le voci e/o grida “Gli apparecchi, gli apparecchi!” si diffondevano in un battibaleno.
Al che – si verificava soprattutto nella tarda serata o di notte – ricordo che arrivavano di corsa a casa i nonni e gli zii, abitanti nelle vicinanze, per aiutare a prendere in braccio o per mano pargoli e bambini e, in gruppo, si abbandonava la dimora e la zona abitata illuminata da fioche lampadine, portandosi di buona lena nel non lontano appezzamento agricolo di Monticelli, su cui insisteva anche un piccolo fabbricato rurale completamente immerso nel buio.
Di lì a poco, puntualmente, sia attraverso il rombo che andava accentuandosi, sia grazie alle luci verdi e rosse che lampeggiavano lassù, si scorgeva il transito degli aeroplani che, meno male, proseguivano oltre senza lasciare alcuna traccia.
In breve volgere di tempo, il pericolo si considerava rientrato, anche se, ormai guastato il normale ciclo del sonno, comunemente ci si tratteneva in campagna, attendendo il sorgere del sole per far rientro fra le mura domestiche.
Da quanto mi raccontavano i più anziani di me, per tutto il secondo conflitto ci fu un solo vero e proprio duello aereo nel Basso Salento. Furono sganciate, invece, molte più “bombe”. Per molto tempo si è creduto che puntassero ai grandi depositi dell’Acquedotto Pugliese (Corigliano e Vitigliano) ma sono propenso a credere che, specie gli arei inglesi, si alleggerissero soltanto di ogni carico superfluo o pericoloso all’atterraggio sulla strada del ritorno verso le basi del Mediterraneo. Una volta arrivati sul filo della costa (o credendola superata) sganciavano le bombe non scaricate (probabilmente non armate) o eventuali serbatoi supplementari. Questo è confermato da numerose testimonianze di scoppie bagliori sul territorio di Cerfignano, Vitigliano e Santa Cesarea Terme. Questo spiegherebbe pure i numerosi ritrovamenti di bombe di aereo lungo le coste salentine (oltre le tradizionali mine come quella ritrovata a pochi metri dalla spiaggia di Castro l’anno scorso). Nel 2007 la Regione Puglia ha sottoscritto un Accordo di Programma (http://www.statoquotidiano.it/03/02/2010/ricerca-bombe-nei-porti-pugliesi-dal-2007-laccordo-di-programma-relazione-di-feo/14602/) per la bonifica di quei porti e tratti di costa che furono oggetto di vero e proprio bombardamento mirato (es. Porto di Bari) oppure di ritrovamenti casuali come Castro Marina o S. Maria di Leuca.
A proposito di voli militari in tempo di guerra sul Salento, per molto tempo ho cercato di trovare o acquistare un vecchio film di Rossellini dal titolo “Un pilota ritorna” del 1942 in cui, a detta di un mio zio, era ripresa a volo radente una masseria di Ugento in cui in quegli anni i miei parenti lavoravano 8con il particolare di una donna che stendeva i panni). Per anni aveva creduto che quella fosse sua madre, cioè mia nonna. In realtà il film, come ho avuto poi modo di accertare dal dvd, è stato girato interamente nel Lazio e quando il pilota indica ai compagni la costa di Leuca o la città di Ugento, rincuorandoli, le inquadrature sono chiaramente di altre parti d’Italia.
grazie Angelo per questa tua bella testimonianza, che arricchisce il contributo di Rocco. A Nardò comunque una bomba fu sganciata e vi furono anche delle vittime
Mia nonna mi raccontava di una vicina di casa, sua coetanea, che passava le notti sul terrazzo, disperandosi per il figlio militare a Brindisi. Mi raccontava che a ogni volo d’areo o scoppio o bagliore saliva sul tetto di casa a gridare il nome del figlio. Da piccolo, mia nonna mi raccontava storie incredibili facendomele sembrare quasi ordinarie, era cruda e spietata. In fondo era la seconda guerra che subiva e di sofferenze ne aveva passate tante che non distingueva più la felicità dal dolore. Quando, ormai ottantenne, la accompagnai per la prima volta in ospedale e il medico le fece le solite domande per compilare la scheda delle malattie pregresse, non mi sembrò affatto strano che riempisse due pagine di stampato cominciando con un “da quando mi ricordo io, a nove anni ho fatto la malaria..”.
Dei voli aerei ho un ricordo di mia madre ragazzina e di sua sorella molto più piccola lasciate da sole a dormire nel casolare di campagna. Quando fu sera e si alzò un forte vento, la canna di un annaffiatoio lasciato fuori dalla porta cominciò a sibilare in modo cupo da sembrare un rombo d’areo. Restarono chiuse, terrorizzate e abbracciate nel letto, fino all’alba con l’areo che ormai le aveva scoperte e gli volava in tondo pronto a bombardarle. Quando lo raccontava, noi ridevamo. Era così angosciante l’allarme aereo che negli ultimi mesi di guerra quando tutti i paesani uscivano dal paese, al buio del coprifuoco, mia nonna ritornava dal casolare di campagna alla casa in paese e a tutti quelli che incontrava per strada, ripeteva che “se doveva morire voleva morire con tutti i figli e col marito” che era immobilizzato al letto da problemi alla schiena”. Negli ultimi mesi del ’43, nei racconti dei miei, l’incubo più grande non furono i bombardamenti, ma il terrore dello “sbarco”. Si raccontava che gli alleati avrebbero rapito le ragazze e ucciso tutti. Mio nonno per prudenza, già dall’inizio della guerra, non fidandosi di nessuno e con due figlie e una moglie in casa, aveva svuotato una cisterna in campagna e l’aveva attrezzata alla bisogna. Alla casa in paese, come molti altri avevano fatto, aveva diviso in due il granaio in muratura che spesso si trova in un angolo delle case dei contadini, quello con la serrandina sul fronte e che si caricava da sopra. Tanto serviva ormai a poco. Il grano veniva requisito sui campi per lo sforzo bellico e tre quarti della fatica in campagna era dedicato ad inventarsi il modo di non farsi fregare tutto il raccolto, lavorando pure la notte. C’è una scena in un film dei fratelli Taviani in cui i contadini scappano dal paese che sta per essere occupato dai tedeschi portandosi via la mucca con gli zoccoli fasciati per non fare rumore. Mia nonna lo ha fatto davvero, con cinque figli piccoli e un marito invalido sdraiato sulla vacca silenziata. Era la notte “de lu mmarcu”. Tutti scappavano, pure i pochi militari di guardia. Giravano le voci più incontrollate, si diceva che a Castro era già arrivata la “compagnia du mmarcu” e che avrebbero ucciso tutti. Mia nonna pensò bene di tornarsene a casa in paese con la vacca e tutta la famiglia, che se c’era da morire si moriva con crianza tutti insieme.