MARAVÀ ovvero Come scrivere un buon libro senza arrampicarsi sulle nuvole. (Riflessioni critiche di Antonio Porzano)
«Quella favola sol dèe approvarsi
Che di menzogna l’istoria non cuopre
E fa le genti contra i vizi armarsi»
(T. Campanella, A’ poeti)
Conobbi Gianni De Santis, autore del libro oggetto delle mie modeste riflessioni (come asino sape, così minuzza rape, sentenzia un adagio medioevale), per caso, al Mocambo, ristorante dell’amico Vito Maniglio in quel di Sternatia, dove non è raro fare sorprendenti conoscenze, poiché Vito è una calamita umana, capace di attirare nel suo pandochèion/deipnotèrion persone che – quasi sempre – ti rendono migliore la serata.
Fu d’inverno o d’estate, non ricordo, ma la sintonia derivò dalla comune passione per il grico (passione per me, lingua parlata per lui), la chitarra, la musica popolare e divenne, pian piano, dialogo piacevole e colto, poiché piacevole e colto è Gianni, ma anche garbato e modesto, in quanto non se la tira, non si sente depositario di Grundnormen, soprattutto non mette fuori la lingua solo per abbronzarla; la sua sostanza, secondo me, è tutta in un passaggio del libro (naturalmente Gianni non si riferiva a se stesso): “difficile è…restare dentro comunque un po’ bambini…pochi ci riescono e quelli li riconosci subito: sono le persone più belle che ti possa capitare di incontrare”. Bon. Io avevo notizie di suo padre, delle tante cose belle da lui prodotte in loco e pro loco, ma, ripeto, non conoscevo il figlio; col tempo ulteriori notizie mi furono sbocconcellate da Vito (che parla poco, ma è preciso come un notaio), e col tempo, attraverso le proprietà transitive del solito Vito, ricevetti in dono La Genesi (c.e. Manni, San Cesario di Lecce, 2007), garbata ed intelligente parodia dell’omonimo libro della Bibbia, per di più in rima vernacolare salentina (nulla a che vedere con le – pur gustose – facezie, sul tema, di Beppe Covatta), la cui lettura, puro divertimento, mi confermò le doti di Gianni (far ridere con intelligenza, soprattutto attraverso lo scritto, è cosa…seria) e mi tirò fuori dall’abbrutimento del periodo (buttato com’ero a correggere tesi e tesi di laurea), provandomi la verità dell’aforisma di Roberto Gervaso: “l’umorismo è l’arte di mettere i brividi alla malinconia”.
Tuttavia il “chi è?” Gianni rimaneva ricerca diogeniana (ci si incontrava pochissimo) o, se preferite, somigliava al Castello di Kafka, che non si sa neppure se esista, ma di cui tutti parlano; finchè, sempre attraverso le multivirtuose mani di Vito, una sera arrivò Maravà (con tanto di dedica, apprezzata ma degna di migliore destinatario, stante il mio fantozziano considerarmi), un libro che lessi e rileggo con piacere e che mi ha fatto capire qualcosa di più dell’amico e della sua complessità intellettuale e culturale.
Una caratteristica permea tutto il lavoro: l’Autore, fedele al suo essere schietto ed immediato, trascende arditezze formali ed audacie di pensiero, pose e discussioni ardite (“ed è ragion, chè tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare il dolce fico”), per rivolgersi a mezzi espressivi dal contenuto “vero”, attinto alla vita di tutti i giorni (il dotto – insegna Hegel – è colui che può fare ciò che fanno gli altri), conservando intatti, anche quando la verità sembri deformarsi in effetti allucinati, tutti gli aspetti remoti dell’innocenza e della naturalezza, sfondo suggestivo per la descrizione di “drammi” (di vita, d’amore, di morte) in un clima di infinitezza su cui, ogni tanto, cadono – con indubbio effetto – l’espressione acre, l’osservazione sapida e ironica, suggelli delle esperienze dell’Autore, in atmosfere di vitale originalità, solo lontanamente riecheggianti Baudelaire, Verga, Pavese.
È un libro altresì connotato da sequenze storiche, tutte intente, fra dinieghi ed ammissioni, a scandagliare l’autenticità dei rapporti, ad avvicendare le epifanie ed i nascondimenti, enfatizzando talvolta l’unicità, talaltra la molteplicità, ora l’essere, ora il divenire; ma sempre si coglie, pur nell’ambiguità della doxa o nella certezza dell’epistème, la necessità del vincolo tra universale e particolare, tra ragione e mito, tra speranze segrete del cuore e brutalità del quotidiano, tra i “piedi di gomma” (cioè fanciullezza, libertà. Illusioni) e le “tristi cadute”.
Tuttavia Antonio, il protagonista, non prende su di sé il peso del bene e del male, non si pone nell’alternativa tra l’essere o il nulla, né gusta, per dirla con Verlaine, il sapore dell’angoscia: semplicemente si rifà ad una visione delle cose ispirata (e in ciò si avvicina a Camus) ad una colpevolezza ragionata, la quale attiene alla sua primitiva radice, al problema delle sue origini, di cui coglie delicatezze teoriche e condanna, logica ed epistemologia, constatando, novello Eutrifone, il tormento del domandare, l’incertezza della scelta, la lontananza dell’Ideale, la realtà dell’istante. Senza mai rinnegare i legami con il passato – vincolo indispensabile al suo sapere, alla costruzione della realtà – mentre ratio essendi e ratio operandi rinviano l’una all’altra, sfociano in un immanentismo dove le cose sono momenti del divenire, l’infinito è rapporto processuale tra cose finite. In altre parole, un metodo di conoscenza, la quale – convengo con Schmidt – si sostanzia nel “non capitolare dinanzi alla realtà che, come una parete di pietra, circonda gli uomini. La conoscenza rimette in vita i processi storico-umani ormai spenti nei fatti compiuti”. Ed è facile cogliere nelle speculazioni di Antonio il pensiero di antenati noti ed illustri: mentre percorre la strada dell’iperconcretezza, mentre, con Parmenide, affida all’intelletto la possibilità di distinguere il vero dal falso, egli ritrova subito il livello della formalizzazione concettuale, della unificazione di senso, dell’intensità dei sentimenti, attraverso un exetàzein che lo riporta a sentieri già intravisti ed interrotti, o già percorsi, con diverso andare, dalla riflessione sociale e morale, sicchè, come Pascal, Antonio comprende che non si può ragionare sulle cose che vanno semplicemente sentite, né giudicare col sentimento ciò che va capito ragionando.
Per conseguenza nell’opera si intersecano diversi campi del sapere e si dipartono stimolazioni che interessano disparati settori, attraverso le derive semantiche funzionali a descrivere rapporti, emozioni, speranze, pentimenti, cioè problemi essenziali che, per dirla con Gianfranco Morra, non possono essere elusi in nome della ragione; anzi, il nucleo di interrogativi e stati d’animo del protagonista è lontano dalle certezze cartesiane, approdando, piuttosto, alla conclusione di Senofane: la verità, anche quando sia stata trovata, è possibile che non la si riconosca, sicchè non esiste un criterio di verità; e se la verità non è individuabile non resta che l’incertezza, la quale, a mio parere, è il filo conduttore del libro: Antonio dubita di se stesso, dei fatti, delle persone, notando, aristotelicamente, che per gli esseri umani verità è ciò che sembra bene, sicchè, in virtù di ciò che sembra bene, tutti compiono tutto.
Nondimeno, egli si lega a fatti e persone in maniera complice, attraverso aspirazioni, necessità, tenerezze, odio, desiderio di vendetta; e in tal modo disegna architetture capaci di costruirsi le une sulle altre, tramite scambi costanti, e con un “narrare” lontano da acritico sperimentalismo (utile solo a definire le cose, ma capace di perdere di vista la realtà, senza mai intrecciare trame conoscitive appaganti), sicchè l’opera esprime quella che Morin definisce “conoscenza semplificante”, in quanto agglutina ciò che è separato, articola ciò che è disgiunto e dunque ogni lettera di cui l’opera consta è parte e tutto, spezza l’idea di riflessioni chiuse ed autosufficienti, palesandosi – seguo Bertalannfy – come “insieme di unità in reciproca integrazione”, acquista logica e validità perché totalità organizzata di elementi sodali e funzionali alla stabilità del racconto, alla sua Aufklärung, nonostante i turbamenti, sempre attivi, della coscienza.
Unitas multiplex, dunque, che sfugge al vuoto delle generalizzazioni e del mero particolarismo: accanto al ricordo del “…pupazzo di plastica che, inizialmente, nella mia fantasia eri tu, era l’amico che non avevo e con il quale parlavo di tutto…”, accanto al ricordo degli schiaffi e dei calci dispensati “…a mezzanotte del Sabato Santo, quando per tradizione si picchiavano i bambini per dar loro il senso del dolore e della vita…”, si coglie l’universale pedagogia del “Maravà, piccinni, maravà” o l’annichilimento di ogni Streben per generazioni e generazioni di moderni Ulisse: “…quando si va via per tanto tempo, si entra in una dimensione alienante, si diventa stranieri…E anche se dentro si conserva lo spirito di appartenenza, una volta rientrati si deve percorrere all’inverso la lunga strada della reintegrazione e ci vuole pazienza e diplomazia; perché questa terra sa essere tanto materna quanto ostile e pronta a rigettarti…” (sembra riscoltare, con le debite differenze, la profezia di Tiresia al figlio di Laerte: “…quanto a te, se ti salvi, tardi e male tornerai…troverai pene in casa…”).
Tornando all’argomento, queste citazioni mi sembrano la migliore dimostrazione che l’autore non rimane mai alla superficie, sia nell’insieme che nel particolare e la sua prosa è priva di sovradeterminazioni funzionalistiche, formalistiche e di strutture epifenomeniche: ricchezza e coloritura concettuali di ogni lettera danno nerbo al tutto sistemico, alla complessità generale del pensiero, dal che derivano considerazioni importanti per il protagonista: il destino dell’uomo è soltanto un elemento funzionale al tutto, la vita è caratterizzata da ineluttabile entropia, ma è necessario lottare non (solo) perché lo impone l’esistenza in quanto tale, ma perché solo nella lotta è possibile la costruzione di un sistema umano, non vincolante, non deterministico, in cui il sapere epistemologico, per dirla con Russel, possa avere conseguenze utili anche per l’etica; un sistema fatto di molteplici strategie di scelta e rifiuto di ogni logica adattiva (l’uomo, scrive Camus, è l’unica creatura che rifiuta di essere ciò che è), nell’alternanza tra Heidegger e Protagora, tra la metafisica del conoscere e l’uomo come misura di tutte le cose: Sein und Zeit, essere e tempo si alternano nel dubbio, nell’incertezza, spiegando ad Antonio il senso del contingente e del passato, inteso come decorso di avvenimenti irripetibili, ma rendendolo altresì conscio del divenire, che non ha mai univoca direzione storica, sociale, etica, sicchè agli eventi è possibile imprimere direzioni diverse, essi possono acquistare autonomia se vengono poste tutte le alternative possibili, attraverso una qualificazione del pensiero non minacciata dall’oclocrazia, dalla sofistica, da formule incantatorie: nulla è necessitato e se qualcosa lo diventa è perché, afferma Bocchi, “si costruisce sempre e sempre a posteriori”.
Non sfugge, quindi, il diffuso ottimismo da cui l’opera è pervasa, o almeno il suo policentrismo evolutivo che esplora fatti e persone non solo per interne e contingenti necessità (nostalgie, rimpianti, umiliazioni, amori contrastati o perduti, ritualità e costumi del borgo), ma – sia pure in maniera conflittuale – soprattutto in vista di obiettivi per i quali vale la pena osare, nonostante l’incertezza che tutto pervade ed è, comunque, la migliore alleata di un narrare permeato da chiaroscuri dell’anima e paganeggiante naturalismo, speculazioni intellettuali e pedagogia delle virtù, sicchè le persone, le cose, i fatti si vedono, si sentono, si toccano, i vecchi sono forti, maestosi e utili come gli ulivi, le donne profumano di innocenza e malizia, sono carne e spirito, miele e cicuta, la natura si stempera nel cuore, nelle ossa, nella mente, odori e sapori alimentano istinti antichi, mentre universi al di là dei muretti di pietra stimolano verso l’ignoto.
Questo è il mondo di Antonio, sufficiente alla sua esistenza etica, la quale non ha bisogno di ulteriori leggi e direttive: solo ciò che le è estraneo può essere oggetto di lotta e anche quando Antonio cerca di ripudiarlo, conviene che quel mondo, per insegnamento di Bacone, non può essere vinto “aliter quam parendo”, poiché è un mondo permeato dalla massima di Eraclito: “il dio è un bambino che gioca con i dadi”.
Eppure, proprio questi vincoli gli consentono di assumere anche il ruolo di osservatore disincantato, che non manipola fatti o personaggi, che non cade in ingenui realismi o nominalismi ingenui: la sua è visione dialettica e pedagogica dell’uomo impossibilitato a sottrarsi all’obbligo del Sein e del Sollen, alla razionalità e alla soggettività, strutture comunicative che il dover-essere contiene, pur se l’etica, la speranza, il sentimento fanno oscillare l’altro piatto della bilancia.
A questo punto anche la seducente idea di un’opera autobiografica ha poca importanza, stante l’ampiezza dei temi trattati, pur convenendo che, altresì in letteratura, non esistono sistemi indipendenti dall’autore: decisioni, scelte, atmosfere, personaggi, nonché sintassi e grammatica, rimandano, di norma, all’introspezione, in quanto, di norma, chi scrive si dà all’opera attraverso i suoi interessi e determinazioni personali, culturali, antropologiche.
Naturalmente, la presenza “storica” di Gianni è probabile, dato che stretto sembra il rapporto fra ciò che io conosco del suo mondo interiore e l’intensità, la linearità espositive e descrittive; tuttavia a me basta (e spero d’esserci riuscito) averlo individuato come produttore di conoscenza, capace di stimolare il lettore alla comprensione dell’evolversi narrativo, alla curiosità per un mondo apparentemente conchiuso e finito in ogni lettera, eppur ricco di ulteriori saperi, esperienze; un mondo nel quale maturano sempre nuovi problemi e soggettività chiamati – fra libertà e necessità – a decidere e decidersi, un mondo di fronte al quale l’Autore rimane sempre dubitante, interrogante, pur essendo obbligato a rispondere e rispondersi, convinto di non poter controllare i fatti umani ed accettando alternativamente (almeno per cercare di spiegare gli eventi) i contributi della ragione e dei sentimenti.
In conclusione, il libro ha, innanzitutto, il fascino di ciò che è genuino, immediato: incalzante nel racconto, essenziale, a volte necessariamente rude, lontano – per fortuna – dalle regole canoniche del romanzo, non socrateggia, non vuole épater le bourgeois, non gli si addice il ciceroniano “sic perfectae eloquentiae speciem…”, ma l’uggia virgiliana per l’ampollosità dei retori: è atto di amore di un salentino per il Salento, di un grico per la sua terra, anche se gli argomenti collocano l’opera in una dimensione sovraordinata, poiché si (ri)propongono questioni che le moderne idiozie collettive vogliono esorcizzare e seppellire.
Quindi, un libro utile (Dio solo sa quanto ce n’è bisogno!), lontano da mode cervelloticamente pennaiole, da astrusi teoremi letterari e culturali (pur se la cultura, nell’opera, è dappertutto), un libro che si “limita” a descrivere ciò che è fattuale e misurabile, attento a proteggere la concreta storicità delle vicende della carne e dell’anima: tutto ciò mi porta a ringraziare Gianni del dono, piccolo scrigno di saggezza ed umanità, nelle cui meditazioni è facile ritrovarsi, in quanto provengono da una persona i cui pregi, in questo crepuscolo di galantuomini, sono viatico di speranza; io posso offrire all’amico solo un pensiero (ma adatto a lui) di Faust: “Das ist der Weisheit letzter Schluss: / Nur Der verdient sich Freiheit wie das Leben / Der täglich sie erobern muss”.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6