Il nostro folletto domestico, assai simile al brownie britannico e agli elfi della nota letteratura europea, viveva tra le mura di alcune case di campagna, negli anfratti di cavità naturali, in angoli nascosti di masserie, con particolare predilezione delle stalle, talvolta nelle dimore cittadine, qui scegliendo la “rimesa” o lo “stanzino” (deposito a pianterreno), tra le poche masserizie qui raccolte. Raramente alloggiava nella “casscia” (cassapanca), tra le coltri e la dote femminile accumulata nel corso dei decenni.
Tanti anni fa, ancora universitario, la leggenda del “munaceddhu”, variamente denominato (lauru o laurieddhu, scazzamurieddhui, sciacuddhuzzu), mi ispirò due atti che rappresentai con un certo successo con il gruppo teatrale di “Nardò Nostra”.
Avevo raccolto le ultime testimonianze dei nonni e di quanti erano stati “visitati” dallo straordinario personaggio, comprendendo appieno la sua importanza nella cultura e nell’immaginario salentino. 50 centimetri, esile, brutto, imberbe, vestito con tonacella marrò, cappellino rosso porpora, saccoccia appesa alla cintola, scalzo. Così lo ha descritto un mia lontana parente, giovane, circa vent’anni fa, conformemente con quanto aveva scritto un secolo prima un nostro sociologo salentino, L.G. De Simone, ne La vita nella terra d’Otranto (1876): “piccoletti alti tre spanne, bruttini, foschi, pelosi, vestiti di panni color tabacco, con cappellini in testa e d’ordinario scalzi”.
Notoriamente dispettoso, era solito disturbare nelle ore notturne rompendo coperchi, battendo sulle pentole, rovesciando “capase”, fino a saltellare sul torace dei dormienti, tanto da rendergli difficoltoso il respiro. Le sue attenzioni erano particolarmente rivolte alle fanciulle, alle quali era solito fare il solletico, tirargli i capelli, più spesso premendogli sul ventre, manifestandosi in particolare poco prima del ciclo mestruale.
Non risparmiava neppure i cani, sul dorso dei quali spesso sedeva fino a farli “scunucchiare” per il peso, evocando strazianti guaiti. Particolarmente “antipatici” dovevano stargli i cavalli, cui spesso svuotava le mangiatoie per farli morir di fame, strigliandoli o intrecciandogli la coda e la criniera.
Il Prof. Giuseppe Pastore, impedito a comunicare tramite Internet, mi ha pregato di informare i forumisti che a Napoli ancora oggi il popolo chiama “monaciello” il nostro folletto domestico.
Mi ha anche raccontato la leggenda a lui collegata e volentieri provo a riproporla secondo quanto ritenuto dalla piacevole telefonata:
nato da una relazione peccaminosa di una monaca di clausura a Napoli, intorno al XVI secolo, era sempre vissuto nel monastero con le claustrali. Non potendo esse disporre di indumenti adeguati all’età, lo vestirono sempre con un saio e con loro visse fino all’età di cinque anni. Nonostante le monache cercassero in tutti i modi di non fargli pesare la clausura obbligata egli si divertiva con loro in ogni modo, facendogli dispetti, nascondendo oggetti o libri di preghiere, versando il vino dalle ampolle, scambiando l’acqua con il vino, disturbando il sonnellino pomeridiano e con ogni altra stravaganza che poteva attuare un piccoletto.
Il suo desiderio però fu sempre quello di trovare dei coetanei per divertirsi e giocare, ma invano. Dopo la morte il suo spirito vagò e vaga ancora alla ricerca del divertimento negatogli, cercando particolarmente abitazioni in cui vivono bambini.
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[…] di Marcello Gaballo http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/02/23/i-dispetti-del-folletto-domestico-salentino/ […]
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