Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, (a cura di Marcello Gaballo) Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Congedo Editore, Galatina 1999. ISBN 8880862758
è un patrimonio notevole quello delle chiese neritine, anzi rappresenta la maggior parte dei beni culturali che la città possiede e sui quali si può puntare per far decollare il paese, in tempi di accresciuta sensibilità per le espressioni storico-artistiche, che sono sotto i nostri occhi e che abbiamo sottovalutato per troppo tempo, perdendo di vista l’interrelazione profonda del futuro della città col suo passato e con la sua identità.
E’ un patrimonio straordinario che lentamente si è formato nel corso dei secoli, col contributo delle diverse gentes che hanno animato per secoli la città: messapi, greci, romani, bizantini, normanni, ebrei, francesi e spagnoli.
Già alla fine del Medioevo si era registrato in città un incremento edilizio, stimolato dalle costruzioni dei nuovi ordini mendicanti dei Francescani e dei Domenicani che, a differenza dei Benedettini, preferirono scegliere le loro dimore nel centro abitato anziché nelle abbazie sparse nella campagna.
Il numero di chiese ubicate intra moenia civitatis, che ho voluto considerare come termometro dell’ evoluzione della stessa, già è cospicuo nel XV secolo: lo provano le visite pastorali di Mons. Ludovico De Pennis del 1452 e di Mons. Gabriele Setario del 1500, i quali ne visitano, rispettivamente, 28 e 51 (quest’ultimo numero, da attribuirsi, probabilmente, al rinnovamento urbanistico della città voluto dal duca Belisario Acquaviva d’Aragona).
Emerge chiaramente da recenti studi, ancora meritevoli di approfondimento, che è il periodo compreso tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo quello di maggior sviluppo.
E’ il rinascimento cittadino, in parte stimolato dallo zelo dei diversi vescovi napoletani, ma forse anche dai grandi Giubilei del 1575, 1595 e 1600, che faceva contare ben 55 chiese nella visita di mons. Bovio del 1581 e addirittura 69 in quella di mons. Luigi De Franchis del 1612. C’è lavoro per tutti e, fra i tanti mastri ed experti fabricatores impegnati, spiccano figure come quelle del Tarantino, degli Spalletta, dei Sansone, Pugliese, Dello Verde o ancora dei Maurico, che lavorano in città e in tutta la Terra d’ Otranto.
Ricchi e poveri, nobiltà e popolo, semplici sacerdoti ed alti prelati, tra cui molti vescovi aristocratici, concorrono congiuntamente, con l’ interessamento personale e con le offerte dei devoti, ad incrementare il patrimonio architettonico ed artistico di Nardò.
Non poco impulso a questa rinascita danno i primi Acquaviva d’Aragona, e primo fra tutti il citato Belisario, che probabilmente intendono trasferire nel proprio ducato quanto già avviene a Napoli ed in tutto il Regno. Si circondano essi di nobili cortigiani e di facoltosi faccendieri che a Nardò scelgono la propria dimora, supportando l’emergente ceto sociale, la borghesia, che con le sue attività produttive e mercantili, contribuisce a trasformare la città da centro quasi esclusivamente agricolo a luogo di scambi e di consumi.
Sono i duchi a rilanciare l’amore per le lettere, a fondare accademie, ad ingrandire chiese, a costruiscono il castello e diversi conventi: quando non bastano gli artisti locali, non di rado importano maestranze forestiere, con nuovi modelli e stili che poi, spesso, ispireranno gli artisti locali per la creazione di quanto, solo in minima parte, possiamo ancora ammirare.
La nuova nobiltà invece, proveniente da tutto il Regno di Napoli, gareggia nel suo ambito per comunicare la propria potenza economica, sociale e politica: sorgono sontuosi edifici e case palazziate, individuali e collettive, ricche masserie ed artistiche cappelle, sui quali di frequente spicca, quale signum proprietatis, lo stemma di famiglia.
Sul finire del secolo XVI gran parte degli atti notarili, oltre le frequenti compravendite di suoli e abitazioni, registra numerosi appalti per la costruzione di opere pubbliche e religiose.
Si realizza il nuovo palazzo di città, si ampliano i monasteri di S. Domenico e di S. Francesco, si realizzano ex novo quelli dell’Incoronata, di S. Maria di Costantinopoli, dei Cappuccini e del Carmine con le rispettive chiese. Si ingrandiscono le cappelle della Carità, di S. Maria del Ponte, di San Giuseppe, di S. Maria della Rosa e di tante altre minori. Il tutto, frequentemente, su disegno e progetto delle anzidette maestranze locali, che modellano abilmente la tenera pietra leccese, come già stava avvenendo in tutta la terra d’Otranto.
Ogni barone fa realizzare la propria degna sepoltura nelle cappelle laterali delle chiese, prediligendo S. Antonio da Padova o la Cattedrale, senza però tralasciare San Domenico, il Carmine, S. Francesco d’Assisi.
Si fortificano anche le masserie, si costruiscono le torri costiere, i ponti, le mura esterne all’ abitato; si ripavimenta anche l’intero centro urbano. Tutta la città è un cantiere.
La straordinaria rinascita purtroppo viene interrotta dalle mutate vicende politiche, che la tirannia di Giangirolamo II (1603-26/6/1665) rende sempre più intricate e difficili, sino ad arrivare alle sommarie condanne ed alle numerose morti, tra cui quelle dei gloriosi martiri neritini del 1647.
Il clima pesante e la delazione dei sicari, l’arroganza della nobiltà e gli odiosi balzelli, preoccupano sempre di più e ben poco pensiero rimane da dedicare all’arte e forse anche al culto, tanto da far registrare un vertiginoso decremento delle opere pubbliche e delle chiese: di queste, le sole intra moenia sono passate dalle 69 visitate da Mons. Luigi De Franchis (1612), alle 23 del Vicario Nicola Giorgio Corbino (1655).
Bisognerà aspettare almeno altri 70 anni, e cioè durante l’episcopato di Mons. Antonio Sanfelice (2/11/1707 – 1/1/1736) e quando gli Acquaviva si sono definitivamente trasferiti a Conversano, per assistere finalmente ad una ripresa della città e al rifiorire di chiese e confraternite.
I modelli napoletani importati dal celebre Ferdinando Sanfelice, fratello del vescovo, e dal non meno importante pittore Solimena, prevalgono dappertutto e l’ occasione, altrettanto funesta, del flagello del terribilissimo terremoto sortito in questa città à 20 febbraro 1743, determina una nuova fisionomia della città, in gran parte ricostruita e tuttora visibile.
Si realizzano le chiese di S. Maria della Purità e dell’annesso Conservatorio, le chiese di S. Trifone, S. Giuseppe, S. Lucia, S. Teresa, la guglia dell’Immacolata. Si rifanno gli interni di S. Domenico e dell’Incoronata, del Carmine e dei Paolotti e tante altre chiese minori, intra ed extra moenia, sorgono dovunque.
Nel frattempo sono scomparse le antiche abbazie e delle chiese di patronato familiare cinque-secentesche ne sopravvivono ben poche.
Cessate da molto tempo le incursioni piratesche e venuto meno il pericolo del brigantaggio, le nuove famiglie, per lo più forestiere, giuntevi più che altro per la fertilità dei terreni e l’ amenità dei luoghi, si trasferiscono in campagna e lì, per non mancare agli obblighi domenicali della Messa, fanno costruire per sè e per i propri servi le chiesette private nei pressi della masseria o annesse alle lussuose residenze nelle Cenate.
Una ulteriore perdita, forse ancor più grave, del patrimonio religioso, viene causata dalla repubblica giacobina del 1798-99 e, soprattutto, dalla seconda occupazione Napoleonica del 1809-1814 e la promulgazione della legge 7/7/1866 numero 3036, concernente la devoluzione allo stato dei beni delle corporazioni religiose soppresse. Tutti i monasteri, fatta eccezione per quello di S. Chiara, sono soppressi e fatta variare la loro destinazione d’uso: quelli di S. Teresa, dei Paolotti, dell’ Incoronata e di S. Francesco d’Assisi sono adibiti ad abitazioni private, quelli dei Carmelitani e Domenicani in caserma e scuole. L’altro convento, quello dei Riformati, viene adibito ad ospedale civico, mentre quello dei Cappuccini è abbandonato per le esigue dimensioni. Molte chiese sono ridotte a stalle, depositi o abitazioni private, privandole delle preziose tele del Sei e Settecento, degli arredi sacri, dei reliquiari, tavole dipinte, oreficerie, ex voto, sculture…
Con queste premesse e con la speranza di dare giusto risalto e possibile salvataggio delle testimonianze di civiltà e cultura religiosa di una città distratta e poco sensibile come la nostra, si è voluta inserire Nardò Sacra, del canonico don Emilio Mazzarella, che ben merita un posto di rilievo tra gli studiosi delle vicende civiche e religiose di Nardò.
INDICE DELL’ OPERA
Presentazione di S. E. Mons. Vittorio Fusco
In memoria di Mons. E. Mazzarella, di Cosimo Carrozza
Omelia di S. E. Mons. Vittorio Fusco nelle esequie di Mons. E. Mazzarella
Prefazione del Curatore
Sequenza delle chiese nelle Visite Pastorali, a cura di Marcello Gaballo
Avvertenze del Curatore
Abbreviazioni e sigle
Introduzione
Cenno storico della città di Nardò
Dominazioni, date ed eventi memorabili
Topografia
Nardò Sacra
PARTE PRIMA
Chiese, conventi, confraternite, oratori domestici nella città di Nardò
Oratori domestici o privati
PARTE SECONDA
Istituzioni, monumenti sacri, opere caritative e pie
PARTE TERZA
Conventi e chiese presso le mura
PARTE QUARTA
Abbazie e cappelle fuori le mura
APPENDICE
Altre chiese e cappelle intra ed extra moenia non riportate dall’Autore, a cura di Marcello Gaballo
INDICI
Indice delle chiese, confraternite, monumenti ed altre istituzioni
Indice dei nomi
Indice dei luoghi