Il romanzo breve di Antonio Tarsi, San Giuseppe da Copertino e i pellegrini, immerge il lettore nel pellegrinaggio che un gruppo di fedeli compie per raggiungere la mèta agognata del Convento-Santuario copertinese della Grottella, dove intende omaggiare l’icona della Santa Vergine Maria che San Giuseppe, straordinario esempio di virtù evangelica, definiva la “Mamma mia”.
Il racconto, che ha sullo sfondo la figura del santo copertinese, rende ragione di quanto il raggiungimento della Virtù (devozione sincera verso il Bene perseguito sulle orme di chi ha “segnato la strada”) si scontra sempre con le insidie del “vizio” (tentazioni di varia natura “svianti” come “muse” seducenti). L’opera costituisce un invito a confrontarsi con le raisons du coeur che molto spesso confliggono con la raison tout court dialectique.
Il volume presenta in copertina l’immagine del Santo che spicca il volo estatico, circondato da varie figure di devoti pellegrini in varie pose.
Le dimensioni dell’opera sono di cm 15×21, la casa editrice è la Fides edizioni che è un marchio del Gruppo editoriale Les Flâneurs.
Il primo personaggio, del quale mi accingo a parlare, del titolo molto probabilmente non è noto, neppure di nome, a nessuno dei circa tremila abitanti1 del piccolo comune salentino che gli ha dato i natali. Sarei un ipocrita, oltre che uno stupido e presuntuoso, se non confessassi che anche io lo ignoravo totalmente. prima che una fortuita circostanza me lo facesse incontrare.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse è il caso di dire, prendendo a prestito il famoso verso dantesco. Ma il lettore più acculturato non si faccia illusioni: tra Paolo e Francesca da una parte e me dall’altra non c’è nessun punto di contatto, nonostante al tragico della loro storia d’amore qui si sostituisca il funereo, anzi il funebre …
Si direbbe che, se si fosse voluto aggiungere qualcosa, non ci sarebbe stato lo spazio …
Siffatta struttura è la regola per i libri di qualche secolo fa e, se al lettore moderno la kilometricità dello scritto può non essere graficamente gradevole e apparire dispersivo,.per lo studioso è un’autentica fortuna, perché contiene una tal messe d’informazioni che gli consentono di orientarsi prima ancora di iniziare la lettura del testo vero e proprio.
Apprendiamo così che si tratta di un’orazione funebre in onore di Giovanni Federico duca di Brunswick e Luneburg. Interrompo per un sattimo l’analisi del frontespizio per dire che il volume si apre con la dedica ad Ernesto Augusto, fratello del defunto, della cui protezione l’autore (ne anticipo gli estremi traendoli dallo stesso frontespizio: P(adre) F(ra) Gioseppe Bono dà Diso Predicatore Cappuccino, della Provincia di Otranto. in Regno di Napoli) si augura di poter continuare a fruire sperando che il frutto della sua fatica riesca gradito come con tanta umanità si compiaceva il Serenissimo Suo Fratello, nel corso di cinque anni gradirne, e tollerarne l’aridità. E più avanti: A lei più d’ogn’altro era dovere ch’io presentassi et offerisse come picciol tributo della mia servitù questi frutti primaticci di Palma, aspersi non con altri fiori, ché di puri affetti di dincerissima divotione, et d’humilissima osservanza, poiche niuno havrebbe meno abborrito la rusticità della mia penna, se non L’A. S. Serenissima chìè Fratello, e Successore di chi hà si benignamente tolerata la rozzezza dellz mia lingua. Dopo le solite parole di circostanza e prima dell’altrettanto socntata di chiarazione di umiltà con nome del dedicante, si legge: Hannover, 20 Aprile 1680.
Non deve suscitare meraviglia questo servizio, per così dire, in trasferta, fuori d’Italia di un frate. E non è il solo esempio che la terra salentina offre. Poco prima lo stesso aveva fatto Diego Tafuro da Lequile, del qualr ho avuto occasiione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/.
Riprendo l’analisi del frontespizio e, ricordando al lettore il Palme della dedica, dò ragione del titolo vero e dell’orazione, che è La palma spiccata da sassi col motto Ex duris gloria. Quel che segue ha una funzione esplicativa e ci fa capire che il titolo prima enucleato non è altro che la descrizione della divisa adottata a suo tempo dal defunto. E qui bisogna precisare che divisa non è da intendersi nel senso strettamente araldico di insegna o stemma di famiglia, poiché quest’ultimo è quello che compare nella parte inferiore del frontespizio stesso.
Qui divisa sta nel senso estremamente generico di simbolo, quello che compare puntualmente nel rovescio delle monete (nel dritto pure costante è la testa del duca) coniate in numerose serie, anche nello stesso anno, da Giovanni Federico durante il periodo del suo ducato (1665-1679). Le immagini che seguono, ad esse relative, sono tratte da https://www.acsearch.info/search.html?similar=1011640.
1669
1675
1677
1679
Costante è pure in tutte la presenza del motto EX DURIS GLORIA (dai sacrifici la gloria), parafrasi del più efficace, per il gioco allitterativo, PERASPERA AD ASTRA (Attraverso le difficoltà alle stelle). La palma sull’isolotto roccioso appare da sola nella prima moneta nelle altre le fanno compagnia due navi in balia dei flutti. Il significato metaforico dell’insieme motto e immagine è tanto scontato che non è il caso di soffermarsi.
Il resto del frontespizio ci informa che l’orazione e i tre altri discorsi furono composti e recitati dall’autore nella chiesa Ducale di Hannover. Il duca morì il 16 dicembre del 1679 ed il libro avrebbe visto la luce per i tipi di Wolfango Schwendimanostampatore ducale l’anno successivo.
Dopo la dedica di cui ho già detto si legge un messaggio rivolto Al Prudente Lettore, cui segue il ritratto del duca, che, a differenza delle monete, qui appare di 3/4. Guardando attentamente si nota sul petto quella che sembra essere una curiosa replica. Se è così, direi che qui viene anticipata di secoli, con una punta di esibizionistica autocelebrazione, una moda che a partire dagli anni ’60 mitizzò definitivamente la figura di Ernesto Guevara, alias el Che. Più probabile, tuttavia, che si tratti del ritratto di un antenato, magari di suo padre.
Tale dettaglio, è assente nell’incisione di Cornelis Meyssens (1640-1673) risalente al 1668 circa, custodita nel Museum Herrenhausen Palace ad Hannover
ma appare, invece, in un altro [disegnatore Jean Michelin (1623-1695 ), incisore Robert Nanteuil (1623-1678)] a corredo dell’opera Globi celestis in Tabulas planas redacti descriptio uscita Parigi nel 1674. Appare evidente, al di là della cronologia, come di questo sia rifacimento quello del libro del Bono.
Subito dopo il ritratto, su cui credo di essermi attardato a sufficienza, inizia il testo dell’orazione funebre con in testa l’immagine che abbiamo già visto nel rovescio delle monete.
Essa poi riappare all’inizio di ognuno dei tre discorsi, tale e quale nel primo (Per il giorno della Gloriosa Ascensione in Cielo di Christo S. N.) e nel secondo (Della Gloriosa Resurrettione di Christo N. S.) e con piccole differenze in qualche dettaglio nel terzo (Per il Martedì di Pasqua).
La parte conclusiva proprio di quest’ultimo discorso recitato nella Chiesa Ducale d’ Hannover in presenza di S. A. S. Giovanni Federico Duca di Brunsvich, Luneburgh, etc. nell’anno 1679 contiene un ricordo di S. Giuseppe da Copertino. Il brano occupa le pp, 113-119 del volume, ma qui riporterò solo la parte iniziale: E qui confesso il vero, che la gratitudine dovuta al servo di Dio F. Giuseppe da Cupertino mio compatriota, con interne piccjiate, chiama e me, e voi ad immortalare con archi di trionfo il suo nome. Voi, perche essendosi egli interessato con le sue orationi di donare il vostro SERENISSIMO DUCA alla religione cattolica, vi diede d’un ottimo, e perfetto Cattolico il ritratto e l’idea. Né, perche à lui uguale di cittadinanza, e di nome, non senza special privilegio vengo contr’ogni mio merito onorato à servir S. A. SERENISSIMA in quest’hospitio; ma vorrei però per dimostrar tal gratitudine ritrovarmi quel braccio robusto, con cui l’Angelo portò di peso per un capello Abacuch in Babilonia la Reale, per trasportar voi per duecentocinquanta leghe3 all’ultimi confini d’Italia per contemplarlo, ò nel Convento della Grottella in sua, e mia patria, o d’Assisi nell’Umbria, ò di Fossombrono nella Marca, là destinato dalla sacra Congregatione acciò vivendo tra Cappuccini pietra di paragone, dove egli altre volte, essendo stato nella sua gioventù nostro Novizio, imparò l’abbecedario di Cristo, s’esperimentasse wea tutt’oro finissimo di santtà nell’interno, ciò che nell’esterno appariva.
Ricordo che Giuseppe era morto da sedici anni ed era stato proclamato santo da dodici. La Pasqua del 1679 cadde il 2 aprile, Giovanni Federico sarebbe morto di lì a pochi mesi (16 dicembre, come s’è detto). L’episodio della sua conversione dal luteranesimo al cattolicesimo ad opera del santo dei voli in quel di Assisi, dove il duca venticinquenne (dunque siamo nel 1650, essendo egli nato nel 1625) si era recato da Roma nel corso di uno dei suoi frequenti viaggi per l’Europa, è riportato estesamente in Domenico Bernino, Vita del Venerabile Padre Fra Giuseppe da Copertino, Tinassi e Mainardi, Roma, 1722, pp.180-189. Dallo stesso libro4 apprendiamo che nel 1668 il duca sposò Benedetta Enrichetta Filippina, della quale, ormai vedova, il Bernino riporta la testimonianza (p. 194): “Attesta la Serenissima di Bransuvik, ancor viva, mentre questo libro sriviamo, qualmente in quella Corte à tempo del Duca Giovanni Federico suo Marito, Non vi faceva altro, che parlare del Servo di Dio Padre Frà Giuseppe da Copertino, al quale egli conservava una tenerissima divozione, e ne aveva l’Effigie: et à questo riguardo, volendo egli qualche Religioso nè suoi Stati, prescelse li Padri Cappuccini, come che Francescani, frà quali haveva il suo Confessore, e quali mantenne, fin’ che visse. Così un’authentica testimonianza pervenuta a Noi da quelle parti, insieme con un’ discorso morale del Padre Frà Giuseppe Bono da Diso Predicator’ Cappucino della Provincia d’Otranto, stampato, e recitato nella Chiesa Cathedrale di Hannover, in presenza del Duca Giovanni Federico nel martedì di Pasqua 1679, cioè nove mesi avanti, che quel Sovrano nel nuovo viaggio d’Italia morisse, in cui nel fine si fà lunga, e degna commemorazione dell’Heroiche virtù del nostro Venerabile Padre Giuseppe, non senza tenerezza di lacrime negli Astanti, frà quali il Primo dava, e riceveva Maestà il medesimo Beneficato Serenissimo Sovrano, Uditore, Testimonio, e Soggetto di quanto in quella Predica si esponeva”.
L’episodio della conversione del duca era troppo eclatante perché non trovasse un posto di rilievo nell’iconografia del santo, oltre che nelle immaginette devozionali o santini, anche nell’arte propriamente detta. Di seguito due espressioni sul tema: la prima è opera di Giuseppe Cades (1750-1799), custodita nella cappella intitolata al santo copertinese nella Chiesa dei SS. XII Apostoli a Roma (foto tratta da http://poloromano.beniculturali.it/index.php?it/457/13-cappella-di-san-giuseppe-da-copertino)
Ad integrazione di quanto, soprattutto dal punto di vista iconografico, sul santo ho avuto occasione di scrivere in precedenti contributi (vedi in calce a questo post), quest’anno presenterò due altre immagini che tenterò di commentare con quelle poche informazioni che sono riuscito a reperire.
La didascalia di questa stampa, che è custodita nella Biblioteca nazionale austriaca, recita: Veraeffig(ies) S(ancti) Iosephia Cupertino Sac(erdotis) Ord(inis) Min(orum) Convent(ualium) cuiuscorpus Auximi in Piceno in Ecc(les)iasui Ordinis requiescit (Vera immagine di san Giuseppe da Copertino sacerdote dell’ordine dei Minori Conventuali, il cui corpo riposa ad Osimo nel Piceno nella chiesa del suo ordine).
In basso a sinistra si legge: Sac(erdos) Ant(onius) Bovasc(ulpsit) (Il sacerdote Antonio Bova incise).
Antonio Bova (1688–1775), sacerdote secolare, svolse l’attività di incisore a Palermo dal 1727 al 1773. Appare impossibile dire, in mancanza di altri riscontri, se questa stampa risalga alla prima o alla seconda metà del XVIII secolo. Per completezza documentaria aggiungo che nella stessa biblioteca è custodito il suo ritratto che di seguito riproduco.
Sue sono le due tavole a corredo del volume di Francesco Testa Relazione istorica della peste che attaccossi a Messina nell’anno 1743 uscito per i tipi di Felicella a Palermo nel 1745. Non posso riprodurle perché la digitalizzazione automatica del testo ha comportato una loro riproduzione solo parziale, essendo collocate in pagine pieghevoli.
Posso riprodurre, invece, il ritratto, conservato anch’esso nella biblioteca già nominata, del teologo Paolo Amato (1634-1714) inciso da Antonio Bova su disegno di Niccolò Palma.
In basso a sinistra: Gaet(anus) Bosainc(idit o isor) (Gaetano Bosa incise o incisore). In basso a destra F. A. A. G. M. C. inc(idi) cur(avit) (F. A. A. G. M. C. [chi è in grado di sciogliere questa sfilza di abbreviazioni?; solo un’ipotesi: F. potrebbe stare per Frater, A. A. per i due nomi, G. per il cognome, M. per Minor e C. per Conventualis ] curò che fosse inciso).
Gaetano Bosa (o Bosio o Boza) fu un incisore veneto vissuto dal 1770 circa al 1840 circa. Sue sono le tavole anatomiche dalla n. XLI alla finale (n. LI) a corredo della sezione Ossa et ligamenta che costituisce la prima parte del volume pubblicato da Floriano Caldani per i tipi di Picotti a Venezia nel 1801.
In basso a sinistra il dettaglio, di seguito ingrandito, presente nelle tavole XLI-LI (Le altre, qualitativamente di inferiori, non recano alcuna “firma”).
Cajetanus Bosa ad ipsa corpora hominum delineavit (Gaetano Bosa disegnò per gli stessi corpi umani).
Da notare che nella tavola del Bosa, che pure è successiva al testo del quale ho appena riprodotto il dettaglio, sono assenti i sei ultimi ottonari. Credo, infine, che insegnò … con i seguenti versetti non costituisca prova inequivocabile della paternità dei versetti che il santo copertinese potrebbe aver mediato dalla cultura francescana o popolare dei secoli a lui precedenti.
La Società di Storia Patria, Sede- Delegazione di Copertino, la Custodia Generale del Sacro Convento di Assisi, le Province Francescane di Puglia e delle Marche presentano l’Opera, a cura di Francesco Merletti e Mario Spedicato, il 23 marzo alle 18,00 presso la Chiesa ex Clarisse di Copertino.
Si tratta di uno studio che getta nuova luce sulla conoscenza della figura del Santo dei Voli. Nasce, infatti dall’acquisizione di un documento inedito conservato presso l’Archivio Vaticano, il Processo di Beatificazione Neritonensis del 1664. Esso presenta interessanti peculiarità rispetto al documento conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce, il Processo Apostolico del 1689, di cui lo stesso prof. Spedicato si è precedentemente occupato. Siamo di fronte al processo informativo, il primo di Nardò, che dette l’avvio all’iter per la canonizzazione del Santo copertinese.
La peculiarità dell’opera riguarda le testimonianze, dato che su 43 testi 39 sono copertinesi, in grado quindi di descrivere con dovizia di particolari episodi, incontri, elementi di territorialità di quella società rurale in cui il Santo visse e nella quale aveva un posto rilevante la fede, così come la solidarietà e l’accoglienza. Fortemente emergono le virtù dell’umiltà, della povertà, della mansuetudine, dell’amore per la natura di S. Giuseppe e soprattutto la sua disponibilità verso chi gli si accostava, la tenerezza per l’umanità sofferente. Va inoltre rilevata la puntuale e paziente trascrizione del documento svolta da Padre Francesco Merletti.
– Felice il paese che non ha bisogno di eroi! – fa dire Bertolt Brecht in Vita di Galileo. Io agli eroi, per la circostanza odierna, aggiungo anche i santi e lascio alla libera interpretazione del lettore i documenti che seguono.
Comincio con una serie di stampe antiche, forse le meno note tra le tante che ne riproducono le sembianze, ma che hanno ispirato in tempi diversi gran parte delle serie di santini in circolazione. Le prime tre sono custodite nella Biblioteca nazionale austriaca.
S. Joseph à Cupert(ino) Or(dinis) Mi(norum) Con(ventualium) Raptus sum usque ad tertium caelum =San Giuseppe da Copertino. Sono stato rapito fino al terzo cielo (citazione dal capitolo dodicesimo della seconda lettera di S. Paolo ai Corinzi).
In basso a sinistra: Luigi Pianton del(ineavit)=Luigi Pianton disegnò; non son riuscito a reperire notizie su di lui ma molto probabilmente è coevo dell’incisore. In basso a destra Andrea Rossi incid(it)=Andrea Rossi Andrea Rossi, veneziano, fu attivo dal 1727-1775).
Incisione di Franz Sebastian Schauer (attivo dal 1746 al 1779).
Incisione di anonimo. O.M.C.=Ordine Minori Conventuali
Disegno di C. S. Dittmann; tavola tratta da Roberto Nuti, Lebens-Beschreibung Deß grossen Diener Gottes Josephi Von Copertino, Sinapi, Brünn, 1695.
Da http://www.portraitindex.de/documents/obj/34704960/gs93288d
Effigie di S. Giuseppe da Copertino Sac(erdo)te Min(o)re Conv(entua)le morto in Osimo l’anno 1663, celebre per l’insigne (sic) sue mortificazioni, con mirevole unione con Dio,e pel dono delle frequenti estasi sue stupendissime. Volabo et requiescam (Volerò e mi darò pace)
In basso a sinistra Pietro Novelliinv(enit)=Pietro Novelli ideò, disegnò. Pietro Novelli (1603-1647), pittore ed architetto siciliano per il prestigio di cui godeva era soprannominato pittore reale. In basso a destra Giuseppe Leante scul(psit)=Giuseppe Leante incise (su Giuseppe Leante non son riuscito a trovare nessuna notizia, ma è legittimo supporre che fosse coevo del Novelli). Nel lembo inferiore destro del foglio appo WagnerVen(ezi)aC(um) P(rivilegio) E(xcellentissimi) S(enatus)=presso Wagner con privilegio dell’eccellentissimo senato (significa che ne aveva ottenuto l’esclusiva di pubblicazione. Joseph Wagner (1706-1780) fu pittore, disegnatore, incisore ed editore tedesco attivo a Venezia.
Da http://www.portraitindex.de/documents/obj/33813153
B(eatus) Joseph a Cupertino Ordinis Minorum Conventualium Sacerdos. Ex Archetypo Assisiensi, a Francisco Providonio olim picto, Polanzanus sc(ulpsit)=Beato Giuseppe da Copertino Sacerdote dell’Ordine dei Minori Conventuali. Da un archetipo dipinto un tempo da Francesco Providoni. Polanzani incise.
incisione di Felice Polanzani (1700-1783) da un archetipo di Assisi dipinto da Francesco Providoni (attivo nella seconda metà del XVII secolo). Credo che la stampa abbia un valore particolare per i motivi che seguono: siccome Giuseppe visse dal 1603 al 1663, la beatificazione avvenne nel 1753 e la canonizzazione nel 1767, l’archetipo (sarebbe interessante sapere che fine ha fatto) del Providoni sicuramente ritraeva Giuseppe prima che fosse beatificato (il Providoni a quella data doveva essere morto da un bel pezzo). La rielaborazione del Polanzani, invece, sicuramente è successiva al 1753. Conclusione: l’archetipo probabilmente è (o, forse più correttamente, era) la più antica immagine di Giuseppe e non è da escludere che sia stata realizzata mentre era ancora in vita.
Tavola tratta da Angelo Pastrovicchi, Compendio della vita, virtù e miracoli del Beato Giuseppe da Copertino, Zempel, Roma, 1753.
Ioseph a Cupertino Ordinis Minorum Conventualium Sacerdos, super almam Domum Lauretanam Angelos cernens, velut alter Iacob, descendentes, et acendentes, ad quinquaginta palmorum spatium in aera rapi ab itineris sociis visus est=Il beato Giuseppe da Copertino Sacerdote dell’Ordine dei Minori Conventuali, vedendo, come un altro Giacobbe1, gli angeli che discendevano e salivano sopra la benefica Casa di Loreto, fu visto dai compagni di viaggio essere rapito in aria fino alla distanza di cinquanta passi.
Nel margine inferiore sinistro: Ioa(nnes) Barbauli inv(enit) e(t) del(ineavit)=Giovanni Barbauli ideò e disegnò. Nel margine inferiore destro Fran(cisc)sMazzonisculp(sit)=Francesco Mazzoni incise. il pittore francese Jean Barbauli visse dal 1718- a 1762), Francesco Mazzoni fu attivo a Roma dal 1737 al 1759).
La tavola, a corredo del testo uscito subito dopo la beatificazione, fu oggetto di un fenomeno che definirei plagio (forse nella morale cattolica non è contemplato come peccato, sia pur veniale …), perché venne riciclata, con qualche dettaglio cambiato, in pubblicazioni successive, come l’edizione tedesca dell’opera del Pastrovicchi uscita nello stesso anno per i tipi di Hautt e un’altra uscita per i tipi di Rieger ad Augusta nel 1843. Di seguito, a confronto, la tavola originale e le sue due rielaborazioni.
La prima rielaborazione, in cui la variante più cospicua è data da una semplice inversione orizzontale, reca la firma di F. X. Schönbächler. La seconda a distanza di quasi un secolo si rifà pedissequamente all’originale tagliando la didascalia, cosa giustificata dal fatto che Giuseppe era ormai santo, ma anche il nome del disegnatore e dell’incisore; comunque già il fatto che non compaia nessuna firma denota un comportamento più corretto di quello tenuto nel caso precedente.
D(ominus) Arnaldus Speroni Nobilis Patavensis Ordinis S(ancti) Benedicti Congregationis Casinensis Dei, et Apostolicae Sedis gratia Episcopus Adriae, S(anctissi)mi D(omini) N(ostri) Divina Provvid(enti)a Papae Clementis XIV Praelatus Domesticus ac Solio Pontificio Assistens Universis et singulis presentes nostras authenticas litteras inspecturis fidem indubitatam facimus, atque testamur, qualiter nobis devote exhibitis plurimis Sacris Reliquiis, eas ex authenticis locis extractas, ac documentis authenticis munitas, diligenter recognovimus, ex quibus sequentem extraximus videlicet ex cingulo S(ancti) Ioseph a Cupertino prius recognito ab Ill(ustrissi)mo et R(everendissi)mo Domino D(omino) Ioanne Francisco Nora (?) episcopo. Adriae die 20 Augusti 1760; quam reverenter colocavimus in Theca ex Argento confecta unica cristalo ab anteriori parte munita, et funiculo serico rubri coloris bene colligavimus, et in cera rubra hispanica sigillo D(omini) Vicarii nostri Generalis Ferrariae residentis munita, et pro maiori dictae Sacrae Reliquiae identitate obsignata, et ad maiorem Dei gloriam suorumque sanctorum dono dedimus, et elargiti fuimus ad effectum et cum facultate paenes se retinendi, aliis donandi, nec non in quacumque ecclesia, oratorio, seu capella pubblicae Christi fidelium venerationi exponendi, et collocandi, in quorum fidem has pr(aesent)es nostras manu eiusdem D(omini) Vicarii subscriptas, suoque firmatas sigillo, expediri mandavimus. Datum ex tribunali nostrae residentiae hac die 20 7mbris 1770 septuagesimi. Dominicus Angelini Vicarius G(e)n(ra)lis Caietanus Antonius Meloni Notarius et Cancellarius E(lectus)
Fornisco la mia traduzione e ne approfitto per aggiungere qualche nota esplicativa.
[Noi], don Arnaldo Speroni, nobile patavino della congregazione di Cassino dell’ordine di San Benedetto, per grazia di Dio e dell’Apostolica Sede vescovo di Adria, per la Divina Provvidenza di Nostro Signore Prelato Domestico di Papa Clemente XIV e Assistente al Soglio Pontificio, a coloro che insieme e da soli vedranno la presenti nostra scrittura autentica, facciamo indubitata fede ed attestiamo come, esibite a noi devotamente parecchie sacre Reliquie, le abbiamo diligentemente riconosciute come estratte da luoghi autentici e munite di documenti autentici, dalle quali [reliquie] abbiamo estratto questa, cioè dal cingolo di San Giuseppe da Copertino prima riconosciuto dall’Illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Giovanni Francesco Nora vescovo di Adria il giorno 20 agosto 1760; l’abbiamo rispettosamente collocata in un’unica teca d’argento munita di cristallo nella parte anteriore e la legammo ben bene con una cordicella di seta di colore rosso e munita del sigillo in cera rossa spagnola del nostro Signor Vicario Generale residente a Ferrara e contrassegnata per maggior [garanzia dell’]identità di detta Sacra reliquia e per maggiore gloria di Dio e dei suoi santi, l’abbiamo data in dono e l’abbiamo elargita con l’effetto e la facoltà di tenerla presso di sé, di donarla ad altri, nonché di esporla e collocarla alla pubblica venerazione dei fedeli di Cristo in qualunque chiesa, oratorio o cappella; in fede di ciò abbiamo dato ordine di inviare la presente scrittura sottoscritta dalla mano nostra e del signor Vicario medesimo e confermata dal suo sigillo. [Atto] emesso dalla sede della nostra residenza in questo giorno 20 settembre 1770 di settuagesima. Domenico Angelini Vicario Generale Gaetano Antonio Meloni Notaio e Cancelliere eletto.
Arnaldo Speroni (1727-1801) degli Alvarotti fu creato vescovo di Adria nel 1766. Avviò nel 1779 la costruzione del nuovo seminario di Rovigo e la concluse nel 1794. A lui parecchi letterati del tempo dedicarono le loro opere, ma lui stesso fu autore abbastanza prolifico, Di seguito lo stemma di famiglia (come appare nel timpano della chiesa di S. Agostino a Rovigo) comparato con quello della lettera e col sigillo, elettronicamente elaborato, del documento, nonché alcuni frontespizi delle sue opere.
La parte finale (pp. 312-323) di quest’opera il cui frontespizio è stato riprodotto per ultimo è dedicata dallo Speroni alla sua biografia fino al 1788 e, in particolare, a p. 313 si legge: Insuper anno 1770 die 9 Septembris primum posuit Lapidem novae Ecclesiae Parochialis Guardae Ferrariensis, quo tempore percussum fuit Numisma cum Ipsiusmet Episcopi effigie (Inoltre nell’anno 1770 nel giorno 9 di settembre pose la prima pietra della nuova chiesa parrocchiale di Guarda Ferrarese, nella quale occasione fu coniata una medaglia con l’immagine dello stesso vescovo.
Lasciando il lettore alle sue libere riflessioni, di qualsiasi tenore esse siano, risparmiandogli le mie …, mi congedo con una preghiera risalente al XIX secolo, che ho trovato sul sito della Mediateca di Montpellier. Ringrazio Laura Presicce ed Alvaro Gonzalez Flores per l’aiuto gentilmente fornitomi nella traduzione.
Componimento in lode del serafico San Giuseppe da Copertino. Si celebra la sua festa il 18 settembra.
Per il vostro grande fervore/un serafino vi ha creato:/ sii per noi difensore, o Giuseppe/e infiammaci./Nato da genitori poveri,/Copertino,il suolo natale,/vi vide poi/essere fornito di mille grazie del cielo;/per un tenero fanciullosiete stato/ nella maggiore perfezione. Sii per noi etc./I vostri genitori con cura/vi avviarono al lavoro/e vi osero apprendista/del lavoro di calzolaio:/sul sentiero francescano/vi guidò una luce superiore. Sii per noi etc./Francescano e Cappuccino/chiedesti il santo abito,/ottenesti due rifiuti,/ma per superiore destino/alla Grottella si convenne/che voi entraste come laico minore. Sii per noi etc./La vostra grande penitenza,/la vostra umiltà e dolcezza/fecero sì che ad Altamura/vi si ordinasse in obbedienza/di salire senza resistenza/all’onore di sacerdote. Sii per noi etc./Per l’ariain estasi/frequentemente volavate,/e sette giorni passavate/senza provare altro boccone/che il pane da voi consacrato/con ammirevole fervore. Sii per noi etc./Disprezzato dai vostri,/tenuto per stregone,/sottoposto all’Inquisizione,/fosti dichiarato innocente/e acclamato santo/dallo stesso inquisitore. Sii per noi etc./Ostinati peccatori/furono da voi convertiti;/grazie a voi furono allontanati/scrupoli e timori,/perché con luci superiori/penetravi nell’intimo. Sii per noi etc./Come Paolo hai desiderato con ansia/che terminasse la vostra vita/per restare per sempre unita/la vostra anima all’oggetto amato,/fu dal cielo ascoltato/il vostro incessante clamore. Sii per noi etc./Hai tanto ascendente/sulla divina presenza/che nonc’è tipo disofferenza/che non ceda nel momento/nel quale vi prostrate di vostro intento/davanti al trono del Signore. Sii per noi etc./Potente benefattore/del devoto tribolato/sii per noi, Giuseppe, difensore/e infiammaci nell’amore.
Cuore mio e carne mia Esulteranno in Dio vivo
PREGHIAMO
Dio, che disponesti di trarre tutte le cose a tuo figlio unigenito elevato dalla terra, porta a termine la tua opera più propiziamente, affinché per i meriti e l’esempio del serafico tuo proclamatore di fede Giuseppe elevati al di sopra di tutte le terrene passioni meritiamo di giungere a lui. Per Dio etc.
Anche se è poco cristiano, chiudo con un po’ di autopubblicità segnalando sull’argomento:
1 Allude al cosiddetto sogno della scala di Giacobbe: durante la sua fuga per riparare presso lo zio Labano una notte Giacobbe sognò una scala che da terra giungeva sino al cielo, con angeli che vi salivano e scendevano, mentre Dio gli prometteva la terra sulla quale stava dormendo.
Le due facciate di ogni foglio (o carta) di un manoscritto e le due facce di monete o di medaglie vengono indicate con r, abbreviazione di retto, e con v, abbreviazione di verso (nei manoscritti preceduti dal numero del foglio). Di regola in un manoscritto è il retto del foglio ad ospitare il titolo dell’opera o, comunque, il suo incipit. Sarebbe strano, innaturale, infatti, se ciò avvenisse non in modo immediato, costringendo il lettore a voltare (verso è da vèrtere=voltare, far girare, come, d’altra parte, conferma il sinonimo rovescio) la pagina per leggere sulla sua seconda facciata. Per questo è intuitivo quanto le voci retto/diritto/dritto si portino appresso un’aureola d’importanza rispetto a rovescio/verso. L’espressione testa o croce, invece, è immune da tale qualifica, anche se nelle monete antiche di regola il dritto raffigurava la testa o il busto di un personaggio, naturalmente importante, o di una divinità e la legenda, cioè la scritta, ne riportava il nome e i titoli), mentre il il rovescio di solito mostrava lo stesso personaggio nell’espletamento di una sua funzione (alla quale di solito faceva riferimento la relativa legenda).
Nel caso di questa prima medaglia è veramente complicato distinguere il dritto dal rovescio, a meno che non si voglia considerare discriminante la maggiore grandezza delle lettere della legenda della faccia a destra di chi legge. Potrei, però, obiettare che lo spazio a disposizione non era uguale per le due legende, che ora riproduco con lo scioglimento delle abbreviazioni.
S(ANCTUS) IOSEPH A CUPERTIN(O) ORD(INIS) M(INORUM) CON(VENTUALIUM) S(ANCTI) F(RANCISCI)
San Giuseppe da Copertino dell’ordine dei Minori Conventuali di San Francesco
SAN FRANCESCO ORA PRO N(OBIS)
San Francesco prega per noi
A questo punto, tenendo conto delle sette abbreviazioni della prima legenda e dell’unica della seconda, direi proprio che l’obiezione di prima dev’essere accolta e che la par condicio sia stata rispettata, cosa che, pure a me che a modo mio sono non credente, dovrebbe essere ovvia, almeno per i santi, nonostante il fatto che in un attacco acuto di campanilismo un salentino potrebbe affermare la non casualità della presenza di San Giuseppe su una faccia di due medaglie diverse, anche, se, più o meno, della stessa epoca.
Tutto preso dalla questione del dritto e del rovescio mi son dimenticato di dire che i due santi appaiono entrambi in un’inquadratura (con un taglio all’altezza delle ginocchia) che oggi nel gergo cinematografico è detta piano americano, sono leggermente voltati alla loro destra e hanno l’aureola. San Giuseppe ha braccia aperte con le mani in un gesto beneaugurante sì, ma che trasmette un messaggio di umana, universale partecipazione. San Francesco ha tra le mani il Crocifisso.
Passo ora alla seconda medaglia.
B(EATUS) IOSEPH A CVPERTINA
Beato Giuseppe da Copertino
Sorprende quel CUPERTINA, che non riesco a spiegarmi se non attribuendolo ad un errore dell’incisore, forse suggestionato dal PADOVA (sia pure abbreviato in P.) dell’altra faccia. In alternativa potrebbe aver tratto il dato da qualche documento d’archivio, magari leggendo frettolosamente come -a una -o forse graficamente ambigua. Il santo è rappresentato con l’aureola, a figura intera, inginocchiato e voltato alla sua destra con le braccia aperte davanti ad una grande croce che si staglia in primo piano. Tale ìconografia non è in linea con quella dominante nei secoli XVII-XVIII, in cui , quando compare la croce, il santo è rappresentato in volo di fronte ad essa. Di seguito due esempi, il primo (XVII secolo) da Sarnano (MC), il secondo (XVIII secolo), opera di Giuseppe Cades (oggetto di numerose copie) custodita a Roma nella Basilica dei Santi XII Apostoli.
Passo ora alla leggenda dell’altra faccia.
S(ANCTUS) AN(TONIUS) D(E) P(ADUA)
Sant’Antonio da Padova
Il santo, con l’aureola, appare con lo stesso taglio della medaglia precedente, volto di ¾ alla sua destra, con gli avambracci tesi verso Gesù Bambino con aureola. Anche per questa medaglia, in cui peraltro le lettere sono delle stesse dimensioni e il numero delle abbreviazioni è invertito rispetto alla precedente, non è il caso di perdere, e far perdere al lettore, ulteriore tempo nel decidere quale sarebbe il diritto e quale il rovescio.
Non sono certamente il più adatto, visto il mio atteggiamento nei confronti di tutte le religioni ampiamente e chiaramente emergente in parecchi miei precedenti contributi, ad affrontare questioni del genere, in cui sarebbe richiesta più che mai un’imparzialità non assoluta (non credo che esista su questa terra) ma appena appena abbozzata. Per questo lascio parlare due documenti quasi coevi limitandomi solo a tradurli e ad aggiungere qualche nota esplicativa e qualche riflessione a corroborare il mio giudizio conclusivo che lascio a quello ben più importante, sia o non sia consenziente col mio, del lettore.
Il primo, dal titolo La colombe du bienheureux Joseph de Copertino, è a firma di Maxime Du Hoirs ed apparve nel 1900 alle pagine 396-401 del n. 13 (gennaio-giugno) del periodico parigino Le mois litteraire et pittoresque, integralmente leggibile e scaricabile all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5775665k/f7.image.r=copertino.langEN, da cui ho tratto il frontespizio e le pagine di seguito riprodotti. Per poter collocare la mia traduzione a fronte e, dunque, consentire al lettore che ne abbia interesse, il confronto con l’originale disposto su due colonne per pagina sono stato costretto a riportare quest’ultimo ritagliandolo colonna per colonna (consiglio, comunque, per un’agevole lettura di scegliere nelle opzioni del browser una dimensione dei caratteri almeno del 150%).
Il secondo documento è tratto dal n. 9280 del 19 settembre 1902 (anno 25°) del periodico parigino La Lanterne, integralmente leggibile all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7510505p.r=copertino.langFR, da cui ho tratto ed adattato le immagini del testo originale che seguono.
È giunto il tempo di giustificare il due voli offensivi del titolo. Lo scetticismo di fronte a certi fenomeni può anche essere espresso con ironia o, addirittura, sarcasmo, ma ci dev’essere sempre un limite nella critica delle altrui convinzioni che non può essere varcato, anche perché così facendo le parti in conflitto rifiuteranno ogni dialogo e resteranno arroccate l’una nel fortino della cosiddetta ragione, l’altra della cosiddetta fede; e l’aprioristica rivendicazione della propria superiorità, anche morale, slitta facilmente, come si continua a vedere, nella pretesa di esportazione armata della cosiddetta democrazia cui l’interlocutore (si fa per dire …) contrappone quello che può, cioè il terrore …
Per questo non condivido il taglio del pezzo del quotidiano parigino, nonostante io sia un dissacratore di professione. Non rende un buon servizio, però, a parer mio, nemmeno il primo pezzo per i motivi che sto per dire. Se la finzione è un ingrediente fondamentale del romanzo storico diventa, però, un elemento pericolosissimo per chi lo scambia per fonte autentica; il pericolo è ancora maggiore se ad essere coinvolto è un santo perché già nelle agiografie ufficiali è difficile distinguere l’invenzione dal documentato e, in ultima analisi, ogni aggiunta o elaborazione arbitraria in un circolo vizioso offrirà contemporaneamente il destro agli scettici ed ai fideisti per arroccarsi ancor più ostinatamente sulle loro posizioni. Insomma, secondo me, Maxime Du Hoirs al pari dell’anonimo articolista ha offeso una memoria, soprattutto nel tratto finale, quando ha la spudoratezza, pur consapevole dell’imbroglio di cui è stato autore, di chiedere la preghiera del santo per il lettore e per sé.
Domenico Bernino, Vita del venerabile padre Frate Giuseppe da Copertino, Recurti, Venezia, 1726, pp. 30-31:
2 L’incontro con il demonio così è descritto da Giuseppe Ignazio Montanari, Vita e miracoli da San Giuseppe da Copertino, Tipografia Paccasassi , Fermo, 1851, pp. 251-252:
Il santuario di San Giuseppe da Copertino conserva i più significativi esempi dell’iconografia josephina di tutto il Salento. Costruito nel 1754, in seguito alla beatificazione di frà Giuseppe (1753), il santuario incorpora la stalla in cui era nato nel 1603. I pellegrinaggi verso la città del “Santo dei voli” furono notevolmente incrementati nel 1767, quando il frate fu iscritto all’albo dei santi. È stato probabilmente in questo periodo che la chiesa fu arricchita da sei grandi dipinti ovali che illustrano scene della vita e dei miracoli dell’umile francescano: “San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia”; “San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia”; “Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino”; “San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione”; “San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario” e “San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi”.
Queste raffigurazioni devozionali furono identificate nel 2003 da Nuccia Barbone Pugliese. La stessa studiosa attribuiva questi dipinti all’operato del settecentesco pittore Domenico Antonio Carella (cfr. N. Barbone Pugliese, Domenico Antonio Carella mentore dell’iconografia del Santo dei voli in Puglia, in Il ‘Santo dei voli’ San Giuseppe da Copertino. Arte, storia, culto, Napoli 2003).
Un’indagine stilistica approfondita rivela che in cinque dipinti su sei – ad eccezione del dipinto di “San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione” d’altra fattura – si possono riscontrare, oltre l’intonazione dei colori, le tipiche fattezze dei volti e le posture dei personaggi presenti nelle opere del pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796). In queste tele copertinesi il pittore si avvale di bozzetti e cartoni utilizzati in altre opere autografe: nella tela di “San Giuseppe in estasi davanti alla principessa Maria Savoia” troviamo il volto della principessa simile al profilo della donna che regge l’uomo malato nel dipinto di “San Paolo” del 1795 della cappella di S. Paolo di Galatina.
La figura del duca in “San Giuseppe converte il duca Giovanni Federico di Sassonia” è la stessa di quella di Salomone nella tela della “Visita della regina di Saba al re Salomone” del 1765 della chiesa matrice di Ruffano. Nel dipinto de “Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe” riscontriamo che la donna inginocchiata a destra ha lo stesso volto e postura della Vergine dell’“Annunciazione” del 1793 della chiesa dei Domenicani di Galatina; mentre le due donne (di cui una tiene in braccio un bambino) della tela di “San Giuseppe guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi” sono pure nel dipinto di “San Nicola abbatte il cipresso di Diana” della chiesa matrice di Maglie.
Sempre a Copertino, nel convento della Grottella, vi è una tela ovale di “San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino”, altro inedito dipinto attribuibile al Lillo. In quest’opera la fisionomia del volto di san Giuseppe è la stessa dei dipinti del Santuario.
La presenza di Saverio Lillo a Copertino è avvalorata ulteriormente da un dipinto autografo, collocato nel presbiterio della basilica di Santa Maria della Neve, raffigurante “La Trinità e il trionfo della Fede”, firmato in basso al centro “Xav[erius] Lillo Ruf[fan]o” e commissionato nel 1777 da “D. Thomas Lagheza pro sua devotione”. Di quest’opera, il Lillo, riprenderà la figura di Cristo e la inserirà nell’inedito dipinto della “Trinità e anime purganti” della chiesa matrice di Cutrofiano.
Da: S. Tanisi, Il pittore del “Santo dei voli”. Saverio Lillo da Ruffano, in “Il Paese nuovo”, Quotidiano del Salento, Anno XX, Numero 104, 3 maggio 2012.
di Armando Polito Nella prima immagine (tratta da http://www.beniculturali.marche.it/Ricerca.aspx?ids=9675) un olio su tela custodito nell’Ospedale di Fabriano ed attribuito a Giuseppe Cades (1750-1799); nella seconda una tavola che fa parte della serie di illustrazioni della Divina Commedia realizzata da Gustavo Doré tra il 1861 e il 1868, riferita ai versi 54-57 del canto XXIX dell’Inferno. Certamente chi ha un’esatta nozione del tempo e, cosa che non guasta mai, un minimo di cultura avrà fatto un sobbalzo nel leggere il titolo che presenta un’accoppiata impossibile. Credo, infatti, con tutto il rispetto, che nemmeno il santo dei voli sarebbe in grado di compiere uno di quei miracoli che sono appannaggio solo del mondo televisivo, cioè intervistare Dante così come, per esempio, Socrate venne intervistato da Edoardo Sanguineti in una delle ottantadue puntate della serie radiofonica Le interviste impossibili, andata in onda tra il 1974 e il 1975. E allora? Si tratta solo di un’associazione di idee partita dalla cosiddetta legge del contrappasso. In un paese in cui le leggi godono il rispetto riservato a ciò che non esiste …, in cui Dante evoca in un gran numero di giovani un marchio di olio d’oliva e, quando non è scritto con l’iniziale maiuscola, crea, sempre in un altro buon numero di giovani che ne ignorano perfino la differente funzione, seri problemi nell’individuare il modo e il tempo di questa voce del verbo dare, sempre che più di uno, ignorando la funzione dell’apostrofo e considerando dante come d’ante (roba da spaccargli in testa l’intero infisso …) , non sentenzi che si tratta di un complemento di specificazione, sentenza, fra l’altro, figlia di un colpo di culo e non certo di conoscenza in cui di logica non è rimasta nemmeno l’analisi, in un paese siffatto, dicevo, bisogna pure che qualche vecchio rimbambito si prenda la briga di dire, a coloro che probabilmente non lo sanno ed a coloro che, pur sapendolo l’hanno dimenticato, che la legge del contrappasso potrebbe essere chiamata pure legge del taglione o legge dell’occhio per occhio, dente per dente. Mi rendo conto che per un ex insegnante è indegno spiegare un concetto con una procedura sinonimica che, nella fattispecie, non facilita certo le cose, evocando gli scenari più disparati: così, per i giovani di cui sopra, taglione potrebbe essere inteso come una grossa taglia messa sulla testa di un delinquente altrettanto grosso e occhio per occhio, dente per dente potrebbe essere scambiato per una rara formula di pagamento con ricevuta fiscale estremamente dettagliata sulla prestazione fornita da un oculista e da un dentista che hanno deciso di metter su uno studio in comune a mo’ di centro commerciale parzialmente specializzato. Dopo aver detto che il contrappasso non è nemmeno un movimento di danza, i giovani sappiano che legge del contrappasso, secondo la definizione che riporto dal vocabolario De Mauro (bella conclusione dopo tanto predicare …!), è un criterio punitivo che consiste nell’infliggere una pena uguale o simile al delitto commesso. Tale criterio è rigorosamente seguito da Dante nella sua Commedia, con la variante che talora la pena può essere anche opposta alla colpa. Aborro la pena di morte, non auspico nemmeno l’applicazione della legge del taglione che era alla base delle Leggi delle XII tavole (prima codificazione scritta, risalente alla metà del V secolo a. C., del diritto romano) ma mi chiedo se veramente da allora la civiltà giuridica abbia fatto progressi, perché ho l’impressione che la pletora di leggi e l’ambiguità del loro testo, che può propiziare le interpretazioni più contrastanti, abbiano dato vita solo all’incertezza della pena, tutto per la gioia di chi delinque. Paradossalmente a distanza di secoli si è sgretolata via via quella certezza, in un certo senso anche democratica, avviata col passaggio dalla legge non scritta (soggetta all’arbitrio non certo del più debole …) alla scritta e, forse, proprio l’eccesso di scrittura e soprattutto la sua ispirazione sovente capziosa, hanno di fatto legittimato la forma più perversa d’intelligenza che possa esistere: la furbizia. Dopo il riferimento a Dante, tocca a S. Giuseppe. Innumerevoli sono le biografie e lascio volutamente da parte Il frate volante, vita miracolosa di San Giuseppe da Copertino, Edizioni San Paolo, 1998, sceneggiatura scritta da Ennio De Concini per un film mai girato, in cui la storia, secondo il vezzo antico della rielaborazione artistica che nei nostri tempi ha lasciato il posto alla spettacolarizzazione travestita, nei casi peggiori, da divulgazione scientifica, è usata per darne libera interpretazione, che diventa arbitraria (e non disinteressata) manipolazione quando si inventano, come succede in questo caso, documenti inesistenti o alcuni passi di quelli autentici vengono criminalmente e consapevolmente alterati. Ora mostrerò, attraverso quattro brani tratti da altrettante biografie e che riporterò in ordine cronologico, come progressive superfetazioni (arbitrarie perché non documentate e neppure documentabili) trasformino agli occhi di chi legge in verità storica quella che già all’inizio potrebbe essere considerata una pura illazione (il rischio riguarda tutte le biografie ma in particolar modo le agiografie), per quanto plausibile. Benedetto Mazzara, Leggendario francescano, Lovisa, Venezia, 1721: tomo IX, p. 248, seconda colonna: Domenico Bernino, Vita del Venerabile Padre Fr. Giuseppe da Copertino, Recurti, Venezia, 1726, p. 3: p. 23 Paolo Antonio Agelli, Vita di San Giuseppe di Copertino, Stamperia Bonducciana, Firenze, 1768, p. 3 Angelo Pastrovicchi, Compendio della vita, virtù, morte e miracoli di San Giuseppe di Copertino, Quercetti, Osimo, 1804, p. 1 Giuseppe Ignazio Montanari, Vita e miracoli di San Giuseppe da Copertino, Tipografia Paccasassi, Fermo, 1851, p. 5 Dall’estasi iniziale descritta genericamente (restando fuora di sé) nel primo brano si passa nel secondo al dettaglio (colla bocca alquanto aperta) e alla sua metamorfosi onomastica (Boccaperta), nel terzo ricompare il solo dettaglio (colla bocca mezz’aperta), mentre nei rimanenti si afferma definitivamente la sua caratterizzazione onomastica (il chiamavano Bocca-aperta/gli misero sopranome Bocca aperta). Ancora oggi occapièrtu è a Nardò l’appellativo conferito ad una persona della cui intelligenza non si ha grande considerazione. Recentemente l’amico torinese Sergio Notario nel suo commento ad un mio post ha usato la voce piemontese badòla che è l’esatto sinonimo del salentino occapièrtu, ma questa volta il gemellaggio è solo di ordine semantico perché badòla è dal latino medioevale badare (da cui la voce italiana)=stare a bocca aperta, sbadigliare. Il lettore si starà già da tempo chiedendo quando arriverà l’ormai famigerata associazione d’idee che a mio dire avrebbe dato vita a queste righe. Lo accontento subito dicendo com’è andata. Mi sono messo nei panni di Dante (calma, non è la mia migliore performance: più di una volta ho indossato quelli di Hitler …) e mi son chiesto come il divin poeta (se gli fosse stato possibile con una macchina del tempo compiere un viaggio nel futuro …) avrebbe immortalato, con l’applicazione della legge del contrappasso, quei ragazzi di Copertino dopo averli posti, forse troppo severamente, tra i dannati della decima bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno (i falsari, nel nostro caso quelli della parola, dunque in compagnia della moglie di Putifarre e di Sinone1). E se San Giuseppe non reagì (essendo già in odore di santità?), al nomignolo di occapièrtu, non abbiate paura a chiamare pàcciu (pazzo) me, anche se santità sta a me come onestà sta alla politica, dopo aver letto questa gionta al canto XXIX:
1 La prima, secondo il racconto biblico (Genesi, XXXIX), accusò ingiustamente Giuseppe (naturalmente non il nostro …) di violenza; il secondo, greco, (immortalato da Virgilio nei vv. 57-194 del II libro dell’Eneide, fattosi fare a bella posta prigioniero dei Troiani, li ingannò convincendoli ad introdurre nelle mura il famoso cavallo di legno da lui presentato come dono di espiazione e riconciliazione. Poi, porca Elena!, tutti (?) sanno come andò a finire …
Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.
L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.
Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.
Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”
La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.
Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.
All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.
Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.
Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.
Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.
Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.
Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.
Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.
Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.
Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.
Bibliografia:
P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.
F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.
Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.
L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.
Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.
Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”
La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.
Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.
All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.
Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.
Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.
Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.
Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.
Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.
Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.
Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.
Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.
Bibliografia:
P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.
F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.
E’ stata una particolare esperienza quella del calarsi nella vita di Giuseppe Desa da Copertino. Il santo dall’eccezionale carisma della profusione completa, di corpo e spirito, nel Verbum Dei, sino a sollevarsi in volo.
Tutti i suoi accadimenti sono diventati per me come una seconda pelle, da cui permeare le difficili vicissitudini della sua vita. Ad iniziare dalla sua fanciullezza passata in solitudine a causa della sua salute, passando poi alla sua, spesso ribadita, inettitudine. Senza poi tralasciare il suo particolare attaccamento all’immagine della Madonna della Grottella. Nella quale probabilmente, sublimava il mancato affetto di sua madre Franceschina, donna parca di effusioni, dal carattere duro.
Le poesie che qui seguono nascono, e si ascrivono, all’interno di una
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