L’Immacolata Concezione della chiesa Matrice di San Donaci, copia dell’omonima tela di Leonardo Antonio Olivieri conservata nella Cattedrale di Nardò
di Domenico Ble
A San Donaci, all’interno della nella chiesa Matrice, edificio moderno in quanto edificato nel 1899 (la data è riportata nel cartiglio posto in cima all’arco terminale della navata centrale) è conservata una tela del XVIII secolo, di autore ignoto, raffigurante l’Immacolata Concezione. L’opera non è collocata su nessun altare, ma sulla parete della controfacciata.
Al centro della tela è posizionata la Vergine Immacolata, raffigurata in piedi al di sopra di una mezzaluna rovesciata, sovrapposta ad una nube; ha il capo chino e accetta la volontà divina e con il piede destro calpesta il serpente simbolo del maligno.
Il movimento della figura della donna è evidenziato dal manto che è svolazzante alle sue spalle e dalla posa leggermente arcuata verso sinistra. Quest’ultimo particolare ricorda il modello dell’Immacolata giordanesca, conservata a Latiano nella chiesa dell’Immacolata, già analizzata in un precedente saggio e da me attribuita ad un pittore di formazione “giordanesca”[1].
Degli angeli attorniano la Vergine: quello in alto a sinistra tiene in mano la rosa bianca, un rimando alle litanie lauretane, in cui è scritto: “rosa mistica”; l’angelo in basso a destra regge il giglio, simbolo di purezza, assieme allo specchio, anche quest’ultimo simbolo mariano presente litanie lauretane: “Vergine fedele specchio della santità divina”. In alto, secondo piano a destra, un altro angelo regge il manto. Delle teste angeliche, raffigurate a coppie di due, sono collocate in alto, all’estremità di destra e sinistra.
In secondo piano al centro, conclude lo sfondo dorato, simbolo della dimensione celestiale ultraterrena.
In basso all’estremità di destra, sono presenti due iscrizioni realizzate in epoche differenti. La prima è in latino, mancante di alcuni pezzi, e c’è scritto:
“ALTARE HOC IN HONORE BEATAE MARIAE VIRGINIS SINE LABE CONCEPTAE DICATUM. A RD° ABBATE D. NICOLAO FONTEF […] CANONICO PAENITENTIARIO CATHEDRALIS ECCLESIAE […] NERITONENSI […] ANO REPARATAE SALUTIS 17[…]” (altare dedicato alla Beata Vergine concepita senza peccato. Reverendo Abbate Don Nicolao Fontef […] canonico penitenziere della cattedrale neretina […] anno di redenzione 17 […]). Il frammento dell’anno, da quel poco che si riesce a leggere, potrebbe essere il 1775, anno in cui fu celebrato il Giubileo della Chiesa Cattolica.
L’altra invece risale 1882 e riporta: “PIO DE SANTIS / Restaurò in Agosto 1882 / SOTTO IL SINDACO SIG. / FERDINANDO MARASCO BENEMERITI / CONSIG = Sig. VINCENZO VALLETTA E POMPILIO RIZZO”.
Nella prima iscrizione è menzionato il committente, vale a dire il canonico penitenziere della Cattedrale di Nardò don Nicolao Fonte. Nella stessa viene riportato anche l’altare su cui era posta la tela, ovvero quello dedicato all’Immacolata Concezione.
Riguardo al committente potrebbe trattarsi dell’abate don Nicola Fonte, rettore della chiesa di San Pietro Malearti nel centro storico di Nardò[2] e possessore del beneficio posto sull’altare su cui era collocata l’opera. Nella seconda iscrizione invece si parla del primo restauro, avvenuto ad opera di Pio De Santis nel 1882, per il volere del sindaco Ferdinando Marasco e dei consiglieri Vincenzo Valletta e Pompilio Rizzo.
Per la realizzazione dell’opera, l’autore ha osservato l’Immacolata Concezione di Leonardo Antonio Olivieri (Fig. 6), realizzata nel 1725 circa, conservata nella Cattedrale di Nardò[3]. La tela dell’Olivieri ha una impostazione differente, è maggiormente curata dal punto di vista scenografico, difatti nell’insieme è più complessa.
Nell’opera non è solo raffigurata la Vergine Immacolata, ma anche i santi, che sono collocati a semicerchio in basso da sinistra a destra. In più, in secondo piano a destra è visibile una colonna posta al di sopra di un alto basamento.
Nella tela si riscontra maggiore lucentezza dal punto di vista cromatico e il vibrante gioco di luci ed ombre è più marcato e sicuro; particolare che sottolinea la diretta formazione solimenesca.
La tela di San Donaci invece manca del particolare architettonico posto in secondo piano; è più opaca nelle tinte e non raggiunge l’elevata lucentezza presente nell’opera dell’Olivieri. Inoltre, le ombreggiature definiscono i particolari del viso e degli indumenti, mettendo in rilievo la sensazione di spigolosità presenti nella figura. Altre similitudini fra le due Vergini sono la robustezza della donna, la posa, il movimento del corpo, il gesto di ricongiungimento delle mani, il manto che svolazza in diagonale a destra alle spalle della Vergine, le spire del serpente e l’angelo con lo specchio.
L’interesse dell’opera non è racchiuso solo nell’essere una copia dell’Olivieri, ma conferma l’importanza di un fenomeno molto diffuso nelle province dell’allora Regno di Napoli e cioè quello della circolazione dei modelli dei grandi pittori napoletani. L’autore dunque potrebbe essere un pittore salentino, aggiornato sulle novità del suo tempo, attivo nella seconda metà del Settecento in area salentina.
Note
[1] D. BLE, L’Immacolata Concezione giordanesca, conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano in Il Delfino e la Mezzaluna, periodico della Fondazione Terra d’Otranto – Gennaio 2018, anno V°, nn° 6-7, pp. 263-267.
[2] E. MAZZARELLA, Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Congedo Editore, Galatina 1999, p. 107.
[3] M. PASCULLI FERRARA, Leonardo Antonio Olivieri a Napoli attraverso le fonti e i documenti. Un mecenatismo illustre: i Caracciolo di Martina Franca in Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia, Vol. II 1982-1983, Schena Editore, Fasano 1984, p. 165; M. A. PAVONE, Pittori napoletani della prima metà del Settecento. Dal documento all’opera, Liguori Editori, Napoli 2008, p. 166.
Il seguente articolo è stato pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 17 novembre 2019
A partire dall’anno Mille e in ogni luogo dell’Europa cattolica, il culto dell’Addolorata – elaborando un lento e lungo processo di umanizzazione di quanto in lei vi è di divino – si è radicato nella pietà popolare. Infatti, in virtù delle sue umanissime valenze simboliche, divenute paradigmatiche sia della cultura quanto della psicologia femminile, la sua immagine di Mater Dolorosa è andata accostandosi ai tanti vissuti dolorosi delle madri di ogni tempo e – nell’immaginario collettivo – si è fatta emblema assoluto non solo del dramma della Passione del Figlio-Cristo, ma anche della sofferenza senza tempo di ogni madre che ha vissuto la tragedia del suo medesimo lutto. Ovunque, Ella è la Vergine Desolata, Madre di Pietà sette volte dolente, la Madre di tutte le madri sofferenti.
In tal senso, sono i riti della Settimana Santa a richiamare ovunque e riverberare tali assunti.
A Taranto, come in ogni angolo del suo distretto, i giorni della Settimana Santa erano- e sono – giornate vissute fuori dal tempo. Si pensi, giusto un esempio, alle composte e silenziose celebrazioni della Taranto odierna, alle processioni della notte del Giovedì e del Venerdì santo, due momenti intrisi di un suggestivo misticismo e un segno e una testimonianza di fede, in cui è palpabile la tensione spirituale di tutta una città, che per oltre quaranta ore, dalla mezzanotte del Giovedì santo all’alba incerta del Sabato, di colpo perde quelle assurde connotazioni di città postmoderna. Non più rumorosa e trafficata, si trasfigura in un luogo irreale, con quella folla di figure incappucciate, dall’andatura inusitata e quasi impossibile a comprendersi, dove il tempo e lo spazio mutano di concetto e la gente assume un comportamento inconsciamente proiettato ai tempi, quando là, sulla strada del Calvario, quell’uomo straordinario che era il Cristo, portava a termine, col sacrificio estremo, la sua missione terrena. Impossibile poi non assistere, la notte del Giovedì Santo, nella Città Vecchia, alla processione della Desolata, quando, giunta la mezzanotte, al suono rauco della troccola, quasi una madre disperata, Ella esce dall’artistico duomo medievale di S. Domenico, scende la barocca scalinata e va alla ricerca del proprio Figlio. Le strade sembrano trasformarsi in un unico grande tempio e i segni della devozione popolare toccano vertici altissimi. Vestita di nero, questa Madre del pianto cammina lenta, con le vesti che ondeggiano al vento freddo della notte. L’accompagnano, sino all’alba, le meste marce funebri, la cui musica si insinua profonda, toccando l’animo di migliaia di spettatori. Poi, il Venerdì, nella processione dei Misteri, dal primo imbrunire sino all’alba cerulea del Sabato, la Desolata torna ancora ad accompagnare, seguendola, la bara del Cristo, in una sorta di rituale che l’accosta alla tragedia di tante madri dell’oggi e del passato. Non a caso, fra tutte le statue dei Misteri, è ancora quella che più commuove e si identifica con le più ancestrali movenze del dolore femminile. Ora, Ella assurge a simbolo toccante del dolore universale. La sua statua dalla straordinaria potenza espressiva si fa concetto figurale del dolore di tutte quelle donne, lacerate della perdita di un figlio, divenendone l’archetipo e la proiezione, al di fuori di ogni contesto sociale e spazio-temporale.
Per leggere e comprendere la visione del sacro nei diversi riti della Passione e nei costumi culturali delle trascorse civiltà, bisogna riferirsi proprio al suo umanissimo amore e dolore di madre che permeano quel complesso e polimorfo tessuto della pietà popolare, sostanziandolo di sedimentati e inamovibili pratiche devozionali.
Nell’alimentare la devozione alla Desolata, preminente è stato anche il contributo offerto dall’arte, che ha saputo consegnare alla storia del sacro un soggetto iconografico reiterato, ma sempre di ispirazione tipicamente popolare e fondamentalmente espresso da tre proiezioni tematiche: la Desolata con gli attributi simbolici, propri della sua condizione (l’abito e il manto di colore scuro, il cuore sanguinante, una o sette spade, il fazzoletto del pianto o la corona del Figlio); la Crocifissione, in cui Ella appare sola col Figlio o accompagnata da S. Giovanni apostolo e la Maddalena; la Deposizione o Pietà, in cui si fa palpabile il pathos del dolore materno.
Fra i tanti dipinti a tema L’Addolorata, che ornano le chiese e gli oratori confraternali di Taranto e provincia, mi piace ricordare le due pregevoli tele a firma di Paolo De Matteis (1662-1728) e di Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), in verità esposte nel sale del Museo Archeologico di Taranto.
La prima, che pure ricalca altre simili riproduzioni, fresca di restauro, oggi è esposta nei locali del MarTa, all’interno della Collezione Ricciardi. L’artista napoletano è oltremodo noto a Taranto, non solo per aver affrescato il Coppellone di S. Cataldo nella Cattedrale dell’Assunta. La tela in oggetto, forse destinata al culto privato, effigia l’Addolorata nel tipo della Desolata, della Mater dolorosa. Il tessuto figurativo a impianto piramidale, è tipico di gran parte della produzione artistica del De Matteis. Il tema iconografico si compone della figura della Vergine in posizione ruotata a sinistra, colta a sola col suo dolore, quasi in atteggiamento sacrificale e di accettazione, un nuovo Fiat, col quelle mani che sembrano accogliere il dolore universale. Le sembianze del volto afflitto – dalla linea purissima, con lo sguardo rivolto verso l’alto e gli occhi di pianto – esprime una elegiaca sofferenza tutta interiore e non fisica, come porterebbe a credere quella spada sottile, saettante, dagli straordinari effetti tridimensionali, che le trafigge il cuore di madre. Adagiata su uno sfondo dagli effetti luministici sommamente calibrati, ai lati superiori le fanno corona due figure angeliche risolte in tenere testine alate. La legittimata perizia coloristica impreziosisce l’esito formale della tela gioca con un insieme di effetti timbrici e tonali, propri della tavolozza di questo autore. Gli ampi e ricchi panneggi, in specie quello del manto azzurro, conferiscono all’intero tessuto figurativo un senso di movimento, che anima il tutto.
Più articolata appare la tela del maestro di Martina Franca, Leonardo Antonio Olivieri, allievo del Solimena. Il dipinto proviene dalla collezione di mons. Giuseppe Ricciardi (Taranto 1839-Nardò 1908), vescovo di Nardò, che volle donarla alla sua città natale e oggi è in bella mostra presso il MarTa.
Anche qui – come nella tela del De Matteis – prevale un impianto figurativo piramidale, ma dall’impaginazione riccamente aggettivata da diverse figure, quali il S. Nicola vescovo di Myra e S. Barbara (o forse S. Irene) con gli strumenti del martirio. La Vergine, sorretta da due angeli, sembra quasi venir meno alla vista del Volto offeso del Figlio. Infatti, sulla sinistra, in apice, un cherubino in volo regge il Velo della Veronica, a cui è affidato un drammatico volto del Cristo flagellato come colto dalla pia donna lungo la via del Calvario. L’impostazione figurativa, dall’ampio respiro tematico, sembrerebbe tipico di una pala d’altare. La figura centrale della Vergine, sorretta da due figure alate, appare allora come il modello drammatico di madre dolorosa; il suo non è solo un dolore dell’anima, ma ne esprime anche quello fisico. E’ inutile evidenziare la elegante perizia della composita sintassi cromatica adottata dall’artista, leggibile nelle armoniose movenze luministiche e nell’equilibrato gioco timbrico-tonale del tutto.
In aggiunta al prezioso patrimonio pittorico e scultoreo, a partire dal Seicento barocco, fiorì un’arte statuaria, che dotò chiese e soprattutto gli oratori confraternali, monasteri e conventi, cappelle rurali e dimore aristocratiche del simulacro dell’Addolorata. Le botteghe napoletane apparvero quanto mai perite nel creare volti straziati di Desolate e Cristi squarciati, mentre, nei due secoli successivi, i maestri della cartapesta leccese lavoravano la duttile pasta cartacea con fisionomie dal crudo realismo, potenziato da una declinazione cromatica, espressa in ineguagliabili squilli timbrici e tonali, facendo così, delle loro addolorate, il simbolo e la sintesi di tutto il dolore del mondo.
Queste statue mariane, unitamente agli altri gruppi scultorei dei Misteri, si esibivano nelle processioni della Settimana Santa, attestate già nel Seicento in tutte le Provincie del regno di Napoli, dove i misteri mobili valevano quali rappresentazioni figurate della memoria di un evento lontano, sempre capace di toccare le emozioni più profonde del cuore dei fedeli.
In virtù di tanto, la Chiesa ha comunque risposto col solennizzare la liturgia e la devozione verso la Desolata, tanto che già nel 1423 istituiva la festa della Commemorazione dell’angoscia e dei dolori della Beata Vergine Maria. A volere fortemente questo culto mariano furono soprattutto i Servi di Maria, un ordine religioso originatosi a Firenze nel 1233, la cui fertilità spirituale verso i Sette dolori di Maria spinse i pontefici (Innocenzo II, Pio VII e Pio X) a inserire nel Calendario liturgico la festa dell’Addolorata, oggi, definitivamente datata al quindici di Settembre[1].
[1] Sui temi cultuali dell’Addolorata, cfr.: Morini A., Origini del culto dell’Addolorata, Roma 1893; E.M. Casalini, La Madonna dei Sette Santi, Roma 1990; L. Bertoldi Lenoci-V. Musardo Talò, La pia memoria, Manduria 1994: V. Musardo Talò, La Vergine “Desolata” nell’iconografia sacra popolare, I, 4 Manduria 1996, 19-22¸V. Musardo Talò, I santini della Passio Christi, “Santini et Similia”, III, (11), Manduria 1998, 9-16; S. De Fiores, Santa Maria Addolorata, in AA.VV., I santi nella storia, Milano 2006, 66 -70; Wilmart A., Auteurs spirituels et teste dévots du moyen age latin, Parigi 1932, 505–536; A. Rossi A., Il culto dei Sette Dolori, ”Addolorata” (1936), 68-72; C .Berti., De cultu septem dolorum S. Mariae, “Marianum”, 2 (1940), 81-86.
L’inaugurazione del Museo Diocesano di Arte Sacra[1] di Taranto nel 2011 ha finalmente aperto alla città un patrimonio storico e artistico di notevole valore. La struttura, infatti, si presta ad essere uno dei punti cardine della vita culturale tarantina. Grazie alla disponibilità del suo direttore, Don Francesco Simone, molto sensibile alla promozione e alla divulgazione dell’arte sacra, possiamo annoverare nel suddetto museo alcuni gioielli pittorici sconosciuti agli studi e finalmente esposti alla pubblica fruizione.
Il primo dipinto preso in considerazione ha come soggetto San Francesco. Si tratta di una tela centinata di grandi dimensioni (320 x 214), raffigurante la Visione di San Francesco alla Porziuncola, tema caro ai francescani, collocata nella sezione museale dedicata alla Cattedrale. In questa sezione sono esposti dipinti e sculture che adornavano le cappelle barocche, abbattute in seguito ai discutibili restauri dell’architetto Schettini nel 1952[2], per riportare il duomo alla sua originaria facies romanica.
L’unica segnalazione del dipinto è contenuta nella catalogazione curata dal C.R.S.E.C. (Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali) Iconografia Sacra a Taranto, volume in cui il dipinto viene presentato con una piccola foto in bianco e nero e schedato come Visione di San Gaetano di anonimo autore settecentesco, conservato in episcopio[3]. San Francesco era confuso con il santo teatino e la Vergine con Dio Padre[4]. Dalla riproduzione fotografica dell’epoca, la tela presentava una lacuna nella parte alta.
Il recente restauro del 2010, curato dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia con l’esposizione nel museo, ha potuto fugare ogni dubbio dal punto di vista iconografico e stilistico.
L’iconografia riprende liberamente la vicenda della visione di san Francesco alla Porziuncola, quando in una notte del 1216, Francesco immerso nella preghiera all’interno della chiesa, vide stagliarsi nella luce accecante Cristo e la Vergine, circondati da un nugolo di angeli. Alla divina apparizione il santo chiese il perdono e la remissione dei peccati per chiunque visitasse quel luogo. La richiesta fu accolta dal gruppo divino, a patto che Francesco la indirizzasse al Papa Onorio III.
Il dipinto, per fugare ogni dubbio sulla questione iconografica, è molto affine alla tela di Francesco De Mura riprodotta nel prezioso archivio fotografico di Federico Zeri[5]. La composizione, resa dinamica da un impianto compositivo impostato sulle diagonali, vede san Francesco in basso a destra colto nel tipico atteggiamento estatico, con le braccia allargate mentre rimira il Salvatore, controbilanciato a sinistra dalla presenza dell’angelo, che reca nella mano destra i simboli del martirio di Cristo e nella sinistra l’indulgenza della Porziuncola, chiave di lettura del nostro dipinto.
Più in alto, Cristo assiso su una nube e circondato da cherubini, regge la croce e indica con la mano destra la Vergine che irrompe in alto a destra dominando la composizione. Ad arricchire il dipinto, oltre a gruppi di cherubini, un angelo sospeso a mezza altezza e dal fluente panneggio rosso, che si avvinghia sicuro alla croce, mentre un altro sembra dispettosamente scoprire Gesù afferrandone il drappo.
La tela, può attribuirsi al pittore martinese Leonardo Antonio Olivieri di formazione solimenesca per una serie di motivi. In primo luogo palesi sono i rimandi al maestro nei panneggi accartocciati che avviluppano le figure, e nei cherubini paffutelli, sigla distintiva di molte sue opere. Vera cifra stilistica del maestro è il Cristo, tornito plasticamente da trame chiaroscurali, che nell’indicare la Vergine Madre, richiama le figure del Salvatore e del Battista nel Battesimo, dipinto da L. A. Olivieri per la cattedrale di Nardò[6].
Lo stesso Cristo nell’indicare con l’indice destro la Madonna, riprende la santa Rosa da Lima nella Vergine e sante domenicane della chiesa tarantina di san Domenico[7]. Modelli questi, desunti dal San Clemente di Francesco Solimena nella pala di Sarzana[8]. Il celebre e richiesto pittore napoletano faceva esercitare i suoi allievi nel riprendere alcuni brani delle sue opere, replicando gesti, posture, secondo una consolidata tradizione, per adattarli a nuove soluzioni iconografiche, come nella tela del museo tarantino.
Non è da escludere, inoltre, che lo stesso Leonardo si sia ispirato all’illustre precettore studiando la Trinità in Gloria con San Filippo Neri e Santa FrancescaRomana del museo di Oxford[9], databile intorno al 1725-1730. Se questo non bastasse ad ascrivere l’opera all’Olivieri, è sufficiente confrontare l’angioletto che guarda in basso ai piedi della Vergine e che riprende quello di un altro dipinto di soggetto francescano: la Gloria di santa Chiara di Aversa[10] e quello gemello dell’Apparizione di san Giovanni Evangelista[11]nella Cattedrale neretina.
L’angelo svolazzante con l’avviluppante panneggio rosso fiammante, altro non è che lo stesso in posizione speculare che rimira dall’angolo sinistro in alto l’Adamo ed Eva dell’Eden della collezione D’Errico[12]; dipinto quest’ultimo che Galante aveva dubitativamente attribuito all’Olivieri[13].
La stessa figura verrà replicata con esiti manieristici da Domenico Carella, come si può evincere nella Vergine del Rosario in san Domenico a Martina Franca[14]. Il pittore francavillese avrà potuto osservare le tele del più affermato Olivieri e prendere a proprio piacimento le figure, dando avvio ad un “solimenismo” di maniera.
Per finire e fugare ogni dubbio attributivo, potremmo mettere a confronto l’Eterno Padre che spicca nella Sacra Famiglia attualmente conservata in San Pasquale di Baylon a Taranto[15], con la Vergine del dipinto del museo tarantino.
Lo stemma nobiliare in basso a destra sormontato da corona marchesale, presenta dei porcospini in processione, emblema della famiglia nobiliare dei La Riccia, committenti di un altro dipinto oggi esposto nello stesso museo e proveniente dalla cattedrale di Taranto, raffigurante la Visione di san Filippo Neri[16]. L’opera si può attestare intorno agli anni ‘40 del Settecento nella fase tardo-solimenesca in consonanza con il Trionfo dell’Ordine Francescano, tela attribuita all’Olivieri[17] e proveniente dalla cattedrale. In entrambi i dipinti menzionati assistiamo ad una ripresa pittorica in chiave neo-barocca[18], condotta da saldi contrasti chiaroscurali di stampo “pretiano”, che drammatizzano la scena, stemperata da una luce soffusa e ravvivata da bagliori, che rendono la composizione trasognante e mistica, come richiesto da un’opera devozionale barocca che descrive l’evento miracolistico. La tela è animata dai rialzi cromatici delle vesti dei protagonisti; spicca su tutti il panneggio accartocciato rosso fuoco con cui l’angelo focalizza la composizione.
Altri inediti arricchiscono le sale del Museo Diocesano di Taranto; nella sezione dedicata ai santi, si segnala una tela mistilinea raffigurante il Martirio di santa Lucia, proveniente da una delle stanze del palazzo arcivescovile, fatta affrescare dall’Arcivescovo Capecelatro e ricordata nei documenti come “seconda stanza” piena di quadri piccoli e grandi[19].
La forma e le dimensioni fanno pensare ad un dipinto collocato altrove e successivamente portato nella residenza vescovile, dove è rimasto fino alla nuova collocazione museale.
L’opera ritrae la vergine martire di Siracusa mentre si appresta a ricevere la palma del martirio e una corona di fiori da un gruppo di angioletti che irrompono dall’alto. Suoi attributi iconografici sono gli occhi che Lucia si accinge ad adagiare sopra un piatto sorretto da un angelo in basso a destra; sullo sfondo, a sinistra, la santa stessa viene ritratta durante le persecuzioni contro i cristiani mentre stoicamente prega. A sottolineare il vero supplizio di Lucia è, tuttavia, la ferita inferta al collo che evidenzia lo sgozzamento della santa e non l’estirpamento degli occhi.[20].
Si tratta di un’opera di Domenico Antonio Carella, tipica di quel “solimenismo” mediato da Giaquinto, come felicemente ha sottolineato Galante[21]. Il ductus pittorico, nell’utilizzo di colori dalla stesura liquida, nelle pose languide e nel modo di condurre i cherubini a punta di pennello, riporta alla mente il dipinto di soggetto mitologico collocato sul soffitto centrale del tarantino palazzo Pantaleo[22], raffigurante La Partenza di Achille da Sciro.
A rafforzare questa ipotesi, basta confrontare il volto di Achille con quello della santa, o lo stesso soldato a cavallo con gli eroi omerici ritratti nella stanza dell’edificio nobiliare. A questo si aggiunga l’angelo colto di profilo, mentre regge il piatto, che riecheggia il san Giovanni evangelista del Compianto su Cristo morto nella chiesa del Purgatorio a Fasano[23].
Altre due tele mistilinee dal medesimo formato (154 x 227) ed ascrivibili al pittore, sono esposte nella sezione “cattedrale” del museo[24] e in origine collocate sulle pareti laterali della cappella di santa Maria della Pietà.
Si tratta di un breve ciclo della Passione che comprende la Flagellazione di Cristo (Matteo, 27, 26; Marco, 15, 15; Luca, 23, 16 e 22; Giovanni 19, 1) e l’Incoronazione di spine (Matteo, 27, 27-31; Marco, 15, 16-20; Giovanni, 19, 2-3). I dipinti presentano un’inquadratura dal taglio ravvicinato, espediente che doveva coinvolgere emotivamente il fedele, il quale si immedesimava nelle sofferenze del Salvatore.
Nella Flagellazione il Cristo al centro della tela viene suppliziato da tre sgherri, caratterizzati dalla brutalità dei gesti, mentre un soldato, colto in controluce sulla sinistra, assiste vigile alla tortura. In basso a destra un carnefice si volge verso la scena e con un accenno di sorriso, sembra compiacersi del dramma di Cristo; l’altro aguzzino in primo piano è intento a preparare un nuovo fascio di rami per lo strumento di supplizio.
Nell’episodio dell’Incoronazione di spine i carnefici in abiti seicenteschi dominano la scena; il primo, inginocchiato, sbeffeggia Cristo in maniera irriverente, tirando fuori la lingua e porgendogli uno scettro di canna, mentre un soldato con intenti retorici, indica il dramma del Salvatore[25]. Rispetto ad altre opere del pittore, nelle due tele di argomento cristologico si evince un robusto contrasto chiaroscurale, un senso della forma nitido e deciso oltre ad un vibrante cromatismo dato dall’utilizzo di colori vivaci e di rispondenze cromatiche nei panneggi che animano le tele.
Non mancano incertezze nella resa “stilizzata” del corpo di Cristo, riscontrabile anche nella summenzionata tela di Fasano. Qualora le opere venissero confermate a Domenico Carella, anche attraverso una fortunosa ricerca d’archivio, saremmo in presenza di prove fra le più riuscite in termini di qualità, che confermerebbero quella vocazione eclettica dell’artista fatta in primo luogo di prestiti e richiami alla pittura napoletana e romana della seconda metà del Settecento.
[1] Sul museo diocesano di Taranto cfr. D. Padovano (a cura di), Guida dei Musei Diocesani di Puglia, Fasano 2005, p. 51; F. Simone – G. Tonti , Il Museo Diocesano di Arte Sacra di Taranto, Mottola 2011.
[2] P. Belli D’Elia, La Cattedrale di Taranto : un problema storico architettonico aperto, in P. De Luca, La Cattedrale di San Cataldo, Mottola 2000, p. 58.
[3] AA.VV., Iconografia Sacra a Taranto I, Mottola 1986, scheda A2.25, p. 45/ II, tav. 25.
[4] Questo ha creato ulteriore confusione in quanto il dipinto inventariato come Art. 19 è stato schedato come Trinità e san Francesco d’Assisi di ambito napoletano.
[5] Cfr. www.fondazionezeri.unibo.it, catalogo fototeca, numero scheda 63758, serie “Pittura italiana”, numero busta 0589, intestazione busta “Pittura italiana sec. XVIII. Napoli 2”, Numero fascicolo 5, intestazione fascicolo “Francesco De Mura: Nunziatella2.
[6] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), Martina Franca 1989, p. 16.
[12] Galante nel descrivere il dipinto parla di accentuazione di contrasti chiaroscurali e di luminismo neopretiano che ricorrono nel nostro dipinto.
[13] L. Galante, I Dipinti napoletani della collezione D’Errico (secc. XVII-XVIII), Galatina 1992, pp. 126-129.
[14] L. Galante, La pittura a Martina Franca, in AA.VV., Martina Franca un’isola culturale, Martina Franca 1992, pp.174-175.
[15] V. Vantaggiato, La vita e le opere di Leonardo Antonio Olivieri. in AA.VV., Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. V, Galatina 1980, p.358.
[16] G. Blandamura, Il Duomo di Taranto nella storia e nell’arte, Taranto 1923, p. 64.
[17] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri, cit., p. 49.
[19] V. De Marco, D. Mancini, Il Palazzo Arcivescovile di Taranto, da mille anni con la città, Mottola 2010, p. 197.
[20] J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, p. 249.
[21] L. Galante, Domenico Antonio Carella: un pittore del Settecento pugliese, Martina Franca 1978, p. 3.
[22] O. Sapio, R. Cofano, Il ponte, l’altare, il barone e altre storie. Cronache tarantine fra ‘600 e ‘900, Taranto, 1997, p.55. Per una più approfondita analisi del dipinto cfr. V. Farella, Il Palazzo Pantaleo. Una singolare residenza aristocratica nella Taranto del Settecento, in AA.VV.,“Kronos” n. 10, Galatina2006, pp. 207-210 fig. 2.
[23] M. Guastella, Opere d’arte pittorica nella chiesa del Purgatorio di Fasano, in AA.VV. La Chiesa del Purgatorio di Fasano, arte e devozione confraternale, a cura del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia, Fasano 1997, pp. 165-166.
[24] Inventariati come Art. 03 e Art.04. L’originaria collocazione si deve ad una relazione di V. De Marco che ricostruisce gli antichi arredi delle cappelle smembrate nel duomo di San Cataldo.
[25] Certe caratterizzazioni dei volti in chiave quasi caricaturale richiamano la pittura di Traversi e Bonito, con una ripresa seicentesca nell’utilizzo di effetti chiaroscurali, volti a sottolineare il naturalismo drammatico dell’evento. Inoltre proprio un pittore come Bonito è stato chiamato in causa da Galante (La pittura a Martina Franca, cit., p. 177.) per gli affreschi di Carella nel palazzo ducale a Martina Franca, per sottolineare un’attenzione di tipo realistico del francavillese, che si esprime attraverso un naturalismo più accomodante, dato proprio dal più quotato pittore napoletano della seconda metà del Settecento.
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