di Armando Polito
Chi ha la mia età sicuramente avrà ascoltato il titolo come parte di una locuzione più ampia del tipo sta ppassu li pene ti lu linu (sto passando, cioè vivendo le pene del lino). L’avanzare dell’età e un incremento della mia passione etimologica e, da quando sono in pensione, del tempo da dedicarle, mi consentono oggi di tentare di analizzare quell’espressione sentita usare ed utilizzata da me stesso tante volte senza che mai l’idea di comprenderne l’architettura mi sfiorasse la mente.
Cercare e ancor più trovare l’origine di una locuzione è più complicato che far luce sull’etimo della singola parola e il contesto nel suo insieme può rappresentare più una complicazione che un aiuto.
Nel nostro caso, addirittura, potremmo inizialmente supporre pure che linu vada emendato in Linu, cioè sia un nome di persona (magari forma abbreviata da Antonio>Antonello>Antonellino>Lino) e che la locuzione faccia riferimento ad un sofferente per antonomasia, lu Linu appunto, in cui l’articolo che accompagna, l’onomastico (fenomeno normale in molte zone del Salento) contiene quasi un legame affettivo nei confronti della persona. Anche se così fosse, però, sarebbe difficile soddisfare la nostra curiosità riguardo alle sofferenze da lui subite. D’altra parte apparirebbe strana la scomparsa di qualsiasi aneddoto sulla triste storia del presunto personaggio, quasi un Ulisse salentino …
Archiviato, così, il fantomatico Linu e tornando a linu, potremmo pensare alle complesse operazioni necessarie per ottenere questo tessuto a partire dalla pianta, una specie di supplizio in più tappe che risassumo di seguito: 1) la scapsolatura (passaggio dei covoni di lino attraverso un pettine di ferro per eliminare le capsule contenenti i semi); 2) macerazione ed essiccazione (poteva avvenire sul campo oppure in acqua e successivo riscaldamento al fuoco); 3) la gramolatura (rottura dell’involucro dello stelo per liberare le fibre; veniva eseguita col gramolo, una specie di coltello di legno mobile su listelli fissati ad un cavalletto); 4) la spatolatura o stigliatura (eliminazione per battitura con una spatola dei residui di corteccia); 5) la pettinatura (serviva a separare le fibre più lunghe, le più pregiate, da quelle più corte: il pettine era costituito da diversi chiodi di ferro fissati ad una tavola); 6) la filatura; 7) l’aspatura (iquando il rocchetto del filato era pieno esso veniva riversato sull’aspo, un attrezzo che aveva la funzione di tendere ed avvolgere il filato conferendogli uniformità); 8) il lavaggio (veniva utilizzata la liscivia); 9) la sbiancatura (con l’esposizione al sole il filato perdeva il suo colore originario grigio-beige); 10) la tintura (venivano utilizzati coloranti naturali e come mordente l’urina per il suo contenuto di ammoniaca); 11) l’asciugatura; 12) la filatura.
In alternativa pene ti lu linu potrebbe essere equivalente a sofferenze dovute a malattie sulle quali il lino può avere un effetto terapeutico. E il pensiero corre subito ai semi di questa pianta, utilizzati ampiamente dalla medicina popolare contro la stipsi e, in empiastro, contro la scrofolosi; per non parlare delle bende ricavate dal suo tessuto.
L’ultima possibilità che mi viene in mente è che la locuzione evochi il fazzoletto (di lino in questo caso) e la sua funzione di asciugalacrime, quasi di registratore o, se preferite, contenitore e assorbente della sofferenza umana). Sotto questo punto di vista potrebbero esserci collegamenti con canzoni popolari in cui il fazzoletto sembra recitare un ruolo quasi da protagonista rispetto all’essere umano. Ne riporto solo una da un gruppetto riportato per Lecce e Cavallino in Canti popolari delle provincie meridionali raccolti da Antonio Casetti e Vittorio Imbriani, Loescher, Roma Torino Firenze, 1872, p. 3821 (la traduzione in italiano e le note sono mie):
Nce aggiu lassati l’ecchi allu caminu,/puru cu’ bisciu l’amante passare;/lu core mm’ha turnatu picculinu,/l’anima mme la sentu trapassare./Su’ russi l’ecchi mmei comu rubinu,/de lu superchiu chiangere e uardare./O muccaturu2 mmiu de ‘jancu linu,/tie mme le stuscia3 ‘ste lagrime ‘mare.
(Ci ho lasciato gli occhi nel camminare, pur di vedere passare il mio innsamorato; il cuore mi è tornato piccolino, l’anima me la sento trapassare. Sono rossi gli occhi miei come rubino per il soverchio piangere e guardare. o fazzoletto mio di bianco lino, tu me le asciughi queste lacrime amare).
In questo caso pene ti lu linu sarebbe da interpretare come pene il cui sfogo si affida al fazzoletto. E il solito malizioso pensi solo a pene come sinonimo di sofferenze, non di altro …
Tutto preso da questa battuta finale, quasi dimenticavo di dire che tra le tre ipotesi sopravvissute tifo per quest’ultima, sebbene tutte per motivazione scientifica siano alla pari e nella penultima abbia colto una sorta di partecipazione sentimentale al martirio del lino, cui sembra collegarsi la consapevolezza dell’umana fatica, pesante e durevole sì, ma non tanto da poter essere considerata penosa per una civiltà contadina ben abituata ad altro …
E voi per quale tifate, o ne avete altre?
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1 Il volume, a sua volta, fa parte del terzo volume di Canti e racconti del popolo italiano pubblicati per cura di Domenico Comparetti e Alessandro D’Ancona.
2 Da muccu [che è dal latino medioevale muccu(m), a sua volta dal classico mucus=muco] con aggiunta di un suffisso con valore strumentale. La geminazione di c presente in muccus si conserva nell’italiano moccio che è da un latino *mùceu(m), forma aggettivale del citato mucus=muco] con l’aggiunta di un suffisso indicante strumento.
3 Per quanto riguarda l’etimo di stusciare vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/07/22/dialetti-salentini-stusciare-detergere-chi-mi-aiuta/.
Io opterei per la seconda versione, vista la complessa procedura di lavorazione della pianta, che era ben nota al nostro popolo. In territorio di Nardò veniva coltivata ed evidentemente lavorata nell’Arneo, dove nel XVI secolo esisteva una masseria detta “le chesure dello lino”, citata nei documenti
PER LA STORIA DELLA PRESENZA DEL LINO NELLA TERRA D’OTRANTO …
CONSIDERATO CHE CI SIAMO FATTA “un’idea abbastanza chiara dell’alta considerazione in cui erano sempre stati tenuti, sin dall’alto medioevo, non solo dai consumatori locali, ma anche da quelli di altre regioni italiane e dai mercanti stranieri (inglesi, russi etc.) alcuni tessuti lavorati qui nel nostro Salento” (cfr. : https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/17/tessuti-salentini/), sarebbe interessante sapere ancora e di più sia della «masseria detta “le chesure dello lino”» sia della produzione (coltivazione, tessitura, ecc.) del lino nell’intera Puglia.
Federico La Sala
SUD E MAGIA: ULISSE, POLIFEMO, E … “LE PENE DEL LINO”!
La strega e “me stessa”
di Saverio Strati *
Nei tempi molto antichi, c’erano le streghe che di solito vivevano nei valloni dei pressi del paese. Appena calava la notte, esse andavano in cerca di cristiani da stregare. Una sera, una strega, mentre passava vicino a casa, sentì che due comari facevano questo discorso:
“Cosicché domani mattina chiamatemi presto, comare, diceva l’una all’altra.”
“Sì, comare. Vi chiamerò verso le quattro. Così potremo lavare i panni prima che il sole sia troppo forte.”
La strega, sentite queste parole, si disse che aveva buona caccia da fare quella notte. Verso l’una infatti andò a chiamare la comare che aveva parlato per prima. Questa si alzò, si mise la cesta con i panni in testa e uscì.
“Andiamo, comare!” le disse la strega che sapeva far la voce precisa dell’altra comare.
S’incamminarono.
Anche la strega, si capisce, aveva la cesta piena di panni sporchi in testa.
La notte era limpida e la luna illuminava la terra come se ci fosse il sole.
“Portate molti panni da lavare?” domandò la donna alla strega.
“Molti, comare mia.”
Non si udiva alcun rumore nella vasta campagna.
“Mi pare molto presto!” osservò a un tratto la donna che già incominciava ad aver paura. Come se il cuore gliel’avvertisse.
“No, comare mia! Fra poco sarà l’alba”, disse la strega.
“Ho paura delle streghe. Dicono che laggiù al vallone ce ne sono”.
“Sono dicerie, comare mia.”
“Forse!” esclamò la donna. Ma i suoi occhi, senza volerlo, andarono ai piedi della finta comare.Vide che invece di piedi aveva zoccoli come gli asini. Si sentì gelare il sangue, la poveretta; si sentì sciogliere le ossa. “Gesù, Gesù!” si disse e si fece il segno della croce, per scongiurare il pericolo. Avrebbe voluto scappare, ma per andare dove, sola com’era a quell’ora di notte? Si affidò alla volontà di Dio.
Arrivarono al torrente giù al vallone e cominciarono a lavare i panni e a dire cose. La strega attaccò a parlare, a parlare, per incantare la donna; la quale fra sé pregava Dio che arrivasse presto l’alba. Giacché dopo l’alba le streghe non hanno più potere di stregare. Diceva sempre di sì e fingeva di non aver capito che la compagna era una strega. Si faceva coraggio, ma già la strega la stava addormentando, con quel suo cicalio fitto fitto che non terminava mai. Si scosse, la donna, si fece forza e si diede a parlare delle pene del lino.
“Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino!” diceva. “Bisogna zappare la terra e seminarvi il lino fitto fitto in modo che un seme tocchi l’altro seme. Il lino spunta e cresce. Ma bisogna mettere un pupazzo in mezzo, altrimenti i passeri se lo mangiano… Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino!…”
La strega sentiva che il suo potere diminuiva, a queste parole, e diceva:
“Oh, lasciate stare il vostro discorso e ascoltate me che voglio raccontarvi una storia…”
“… E poi bisogna pulire il lino dalle erbacce… Ah,comare, a raccontare delle pene del lino, canta il gallo e fa mattino!…” continuava a ripetere la donna, proprio col coraggio dei disperati.
Al ripetere: Canta il gallo e fa mattino, la strega fremeva e si sentiva diventare sempre più impotente. La donna lo capiva e a vele gonfie proseguiva:
“Cresce, il lino, e diventa verde e col fiorellino azzurro. A maggio quando c’è bel tempo, il lino ingiallisce e bisogna raccoglierlo… Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino…”
“Lasciatemi dire, fatemi raccontare qualcosa anche a me”, fece la strega sempre però con voce più debole.
“Dopo che lo raccogliamo, lo stendiamo, il lino, nel campo e ve lo lasciamo per giorni e giorni al sole; poi lo mettiamo ad ammollare nell’acqua corrente, quando non c’è la luna… Ché il lino, se c’è la luna, nell’acqua si sfà… Poi lo ristendiamo al sole che lo cuoce, lo matura; e infine lo maciulliamo, lo cardiamo… Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino!…”
“Oh, sentite, comare, cosa m’è successo a me ieri…”
“… E dopo che lo cardiamo, il lino, lo filiamo e incominciamo a tessere i lenzuoli e il resto della biancheria. Tutto il corredo ci tessiamo col lino… Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino…”
Ed ecco il canto del primo gallo. La donna mandò un sospiro di sollievo. Ora che l’alba era prossima, la strega non aveva più alcun potere sulla donna.
“Ora ti aggiusto io per le feste!” si disse questa che era mezza morta per lo sforzo che aveva dovuto fare a vincere l’incantesimo. Accese il fuoco per preparare la liscivia e, quando l’acqua della caldaia cominciò a bollire, disse alla strega:
“Comare, venite a vedere se è al punto giusto per versare la cenere dentro l’acqua”.
La strega che a quell’ora cominciava ad essere stolta si avvicinò alla caldaia e si curvò per guardare. La donna lesta lesta la prese dal sedere e ve la infilò dentr, dicendo:
“E se qualcuno ti chiede chi ti ha buttata dentro, digli che è stata Me Stessa. Così mi chiamo io,”
La strega urlava in modo feroce. Alle sue grida una schiera di streghe le domandarono a gran voce dall’altra parte del vallone:
“Che ti è successo che gridi così?”
“Correte, ché Me Stessa mi sta bruciando viva”
“E se tu ti stai bruciando da te stessa perché dobbiamo venire?
“Non sono io, ma Me Stessa che mi brucia. Aiuto!”
La donna intanto scappava per la salita.
“Accorrete ad ammazzare Me Stessa!” gridava la strega già mezza morta.
“Tu sei pazza stamattina!” le dissero le compagne e non si curarono più di lei che morì di lì a poco.
La donna però ebbe una fifa che le durò per tutta la vita. Figuratevi che per otto giorni ebbe un febbrone da cavallo; e che per sempre non parlò d’altro che della strega e di Me Stessa.
* Saverio Strati è uno dei grandi narratori italiani del ‘900. Nato a Sant’Agata del Bianco (RC) il 16 agosto 1924 è morto a Scandicci, Firenze il 9 aprile 2014.
Cfr.: https://trama-e-ordito.blogspot.com/2011/07/la-strega-e-me-stessa-saverio-strati.html
Federico La Sala
Ti ringrazio per avermi fatto conoscere questa “fonte” che obbliga a scegliere la seconda ipotesi.
Non conoscevo tutte queste versioni te le pene; tifo per tutte.
Sempre nei miei ricordi a Novoli sentivo dire: Sta passu le pene te l’infiernu.
Un saluto da Torino
Ersilio Teifreto
Premesso che non conoscevo questo detto, mi convince di più la versione che fa riferimento alla lavorazione del lino. Poi a volte succede anche che a lungo andare le sfumature si confondano l’una nell’altra diventando tutte plausibili, ma non so se è questo il caso.