di Armando Polito
L’ambiguità, credo sana, che aleggerà per tutto il post si manifesta già nel titolo che, se considerato scritto in dialetto neretino, equivarrebbe alla locuzione certi cazzi!
Cardu, infatti, è uno di quelle tante voci usate con funzione ipocritamente eufemistica in sostituzione di cazzu, come, per esempio, è successo in italiano con il povero cavolo e con càcchio, il cui significato di partenza è quello di germoglio. Nei tre esempi citati il giochetto metaforico è stato realizzato prevalentemente sfruttando il supporto fonetico della prima sillaba in comune con la parola da purificare, anche se in tutti e tre è dato di cogliere un certo riferimento semantico (a mio avviso più evidente, sotto il punto di vista anatomico, in cacchio).
Se l’ambiguità, purtroppo, resterà nel resto del post, intendo subito eliminare quella del titolo dicendo che i cardi di cui intendo parlare sono solo i vegetali, anche perché, se continuassi a parlare di quelli metaforici, il numero dei lettori diminuirebbe drasticamente e io non intendo rinunziare all’ospitalità di questo sito per cercare asilo in altri di racconti erotici …
La parola cardo (che in italiano è il nome comune del genere Carduus annoverante numerose specie) deriva dal latino medioevale cardu(m)1, che è dal classico carduus, a sua volta connesso col greco κάρδος (leggi cardos). Per entrare subito nella boscaglia dell’ambiguità, di antica origine, di cui parlavo ci faremo guidare dagli autori greci e latini. Nel testo originale riportato in nota e nella mia traduzione ho sottolineato tutte le parole coinvolte nello studio dell’argomento.
Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.): “Κινάρα (leggi chinàra). Sofocle la chiama così ne I Colchidesi, invece κύναρος (leggi chiùnaros) nel Fenice: la spina κύναρος riempie tutto il campo. Ecateo di Mileto nella Descrizione dell’Asia, se veramente il libro è suo, poiché Callimaco lo attribuisce a Nesiota, chiunque sia colui che lo abbia scritto, dice così: intorno al mare chiamato d’Ircania ci sono monti elevati e densi boschi e su questi monti c’è la spina κυνάρα. E poi: tra i Parti i Corasmiii abitano la terra che si erge ad oriente ed occupano pianure e monti. Su questi monti ci sono piante selvatiche, la spina κυνάρα, il salice, la tamerice. E dicono che intorno al fiume Indo nasce la κυνάρα. E Scilace o Polemone scrive: c’è una terra umida di sorgenti e di canali, sui monti nasce la κυνάρα e altra erba; e in questi luoghi poi: perciò un monte si distende da una parte e dall’altra del fiume Indo, alto e ricoperto di una foresta selvatica e della spina κυνάρα. Il grammatico Didimo, spiegando la spina κύναρος di Sofocle, dice: forse si riferisce al κυνόσβατος (leggi chiunòsbatos) poiché la pianta è piena di spine e selvatica. E infatti la Pizia la chiamò cane di legno e Locro dopo aver appreso dall’oracolo che avrebbe fondato una città là dove fosse stato punto da un cane di legno, graffiato da un κυνόσβατος, fondò la citta. Infatti, come dice Teofrasto, il κυνόσβατος è una cosa di mezzo tra arbusto e albero ed ha un frutto rosso pressoché uguale alla rosa ed ha la foglia spinosa. Fania nel quinto libro sulle piante nomina un κάκτοs Σικελική (leggi cactos sikelikè=cardo siciliano), come pure Teofrasto nel libro sesto sulle piante: quello chiamato κάκτοs cresce solo attorno alla Sicilia, non c’è in Grecia. Subito sviluppa dalla radice fusti striscianti, la foglia è piatta e spinosa e i fusti sono chiamati κάκτοι (leggi càctoi; plurale di κάκτοs). Essi sono commestibili dopo essere stati scorticati e un po’ amarognoli e li conservano in acqua salata. Producono un altro stelo eretto che chiamano πτέρνιξ (leggi ptèrnix), anche questo commestibile. Il pericarpo, tolte le parti lanuginose, è somigliante al cervello della palma, commestibile anche questo; lo chiamano ἀσκάληρον (leggi ascàleron). Chi, non convinto da questo, avrebbe il coraggio di dire che il κάκτοs non è la stessa pianta che i Romani, che non sono lontani dalla Sicilia, chiamano κάρδος e che dai Greci è chiamata palesemente κυνάρα? Infatti con un cambiamento di due lettere κάρδος e κάκτοs sarebbero la stessa cosa. Sapientemente ce lo insegna anche Epicarmo che annovera tra le verdure commestibili anche il κάκτοs così: il papavero, i finocchi, i pungenti κάκτοι. È possibile nutrirsi di altre verdure; poi continuando: se qualcuno le mette in tavola dopo aver diligentemente pulito la lattuga, l’alga marina, il cocomero asinino, il lentisco, il ravanello, il κάκτοs goda soddisfatto di se stesso. E di nuovo: se si vede qualcuno portare dal campo finocchi e κάκτοι, lavanda, romice, otostillo, scolimo2, atrattilo3, felce maschio, κάκτοs, parietaria4. E Filita di Cos: canterebbe per aver evitato la puntura di uno spinoso κάκτοs una cerbiatta che sta per morire. Ma anche κινάρα (leggi chinàra) lo chiamò come noi Sopatro di Pafo nato ai tempi di Alessandro figlio di Filippo e vissuto fino a quelli del secondo re d’Egitto, come mostra in una sua opera. Tolomeo Evergete, re d’Egitto, uno dei discepoli del grammatico Aristarco, nel secondo libro delle sue memorie scrive così: presso Berenice di Libia c’è il fiume Letone nel quale nascono il pesce branzino, l’orata, un gran numero di anguille e quelle chiamate regali, le quali sono il 50% più grandi di quelle provenienti dalla Macedonia e dal lago di Cope; tutto il suo alveo è pieno di vari pesci. Poiché la κινάρα in questi luoghi cresce rapidamente pure tutti i soldati che ci accompagnavano dopo averla raccolta la utilizzarono come cibo e ce la portarono dopo averle strappato le spine. Io conosco pure un’isola chiamata Κίναρος (leggi Chinaros), ricordata da Semo”5.
La conclusione che si trae dalla lettura è che per Ateneo, come da lui espressamente dichiarato, κάρδος, κάκτοs e κυνάρα sono sinonimi. Ne prendo atto, ma non posso certo, sul piano fonetico, condividere l’affermazione, filologicamente ridicola che, siccome basta cambiare due lettere per passare da κάρδος a κάκτοs, questa è la prova che le due parole hanno lo stesso significato, anzi designano, insieme con κυνάρα e κινάρα, la stessa pianta. Non mi convince neppure l’ipotesi citata di Didimo circa l’identificazione della spina κύναρος di Sofocle con il κυνόσβατος6 che, in base alla descrizione, pure essa riportata, di Teofrasto, mi sembra corrispondere più alla rosa canina (nella foto) che a qualche specie di cardo o di carciofo selvatico.
Prima di passare agli autori latini mi soffermo un po’ per ricordare, a proposito di κάκτοs, che pittore del cactus è la locuzione convenzionalmente usata per indicare un anonimo ceramografo attico del VI secolo a. C., autore della decorazione di alcuni vasi a vernice nera in cui appaiono tra palmette steli muniti di foglie con aculei in cima. Madre di tale denominazione (the cactus painter) fu l’archeologa Caroline Henriette Emilie Haspels (1894-1980) in Attic Black Figured-Lekythoi , E. De Boccard, Parigi, 1936 . La denominazione è rimasta costantemente immutata nel tempo anche nel testo integrativo, molto recente, di Thomas Mannack Haspels Addenda : additional references to C.H.E. Haspels Attic black-figured Lekythoi, Oxford University the Press for the British Academy, 2006. Quanto sto per dire è emblematico del fenomeno di cui ho parlato nel recente post Attenti alla rete!, costituito da certe affermazioni frettolose che diventano pericolosissime per la rapidità con cui i nuovi mezzi di comunicazione, rete in primis, le diffondono. Questa volta l’incidente riguarda addirittura l’Enciclopedia Treccani che nel suo sito alla voce relativa (http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/pittore-del-cactus/) riporta quanto segue: Ceramografo attico, al quale fu dato questo nome dalla Haspels, che interpretò come rami o “pale” di cactus gli steli muniti di foglie, con aculei in cima, che compaiono tra le palmette della decorazione dei vasi dipinti a figure nere attribuitigli. Ma la forma di questi steli ricorda molto più le infiorescenze dei cardi, comunissimi in Grecia, che le foglie di un cactus (a parte il fatto che tali piante, importate dall’America, erano ignote all’antichità).
La voce risulta curata da S. Stucchi e non è altro che la riproduzione della scheda presente in EAA, II, 1959, pag. 248 (nelle foto che seguono la scheda e il dettaglio del vaso).
S. Stucchi, prima di contestare con affermazioni apparentemente incontrovertibili la creazione onomastica della Haspels, non si è lasciato minimamente sfiorare la mente dall’idea che era molto difficile che un’archeologa (di quei tempi, e non intendo dire solo che era nata ventotto anni prima di lui …) non fosse al corrente dell’origine americana del cactus e che fosse impossibile che essa non conoscesse il greco e il latino. Sorprende pure che non abbia pensato che la parola cactus ad indicare il genere appartiene, com’è norma, al latino scientifico, dunque una formazione moderna modellata su una parola antica, nel nostro caso cactus, a sua volta dal greco κάκτοs in cui, come abbiamo visto, la parola designa una pianta spinosa di problematica identificazione. Addirittura in Plinio la voce compare nella forma cactos che è l’esatta trascrizione della voce greca: Il cactus inoltre nasce solo in Sicilia ed è di una specie particolare: i suoi gambi vanno per terra, emessi dalla radice, con la foglia larga e spinosa. I gambi si chiamano cacti, si mangiano volentieri anche quando sono invecchiati. Hanno un solo gambo diritto che si chiama pternica, che ha la stessa gradevolezza, ma non invecchia. Il suo seme è con quella lanugine che si chiama pappo; tolto questo e la corteccia si trova una parte tenera simile al cervello della palma, chiamata ascalia7.
Come si fa a non capire che il cactus della Haspels è proprio quello pliniano e che, dunque, la voce è usata nel significato che esso assume in latino e prima ancora in greco? Si fa, si fa questo ed altro quando, pur essendo Sandro (almeno così credo debba sciogliersi la S. che compare nella firma in calce) Stucchi, si presume di poter cogliere gli altri in fallo trascurando o ignorando, volutamente o no, le fonti. E, a proposito di fallo, non posso non concludere questa parte con una battuta: per contestare il pittore del cactus S. Stucchi ha finito per rimediare la figura del contestatore del ca…ctus.
Sarebbe come se uno studioso del XXV secolo , parlando di un edificio risalente a tre secoli prima, si esprimesse così: la fabbrica presenta un architrave in cemento armato; sarebbe obbligato a farlo solo se ai suoi tempi accanto agli architravi virtuali (tra quattrocento anni si sarà pure trovato il modo se non di vincere almeno di modulare la forza di gravità …) e a quelli in cemento armato si fosse conservata memoria della tecnica di costruzione e, dunque, di una sua possibile realizzazione, di un architrave in muratura.
Purtroppo anche Sandro Stucchi è morto (nel 1991); così né la Haspel può ringraziarmi di averla difesa né lo Stucchi difendersi ed eventualmente contrattaccare. Perciò, se qualcuno può o vuole intervenire sull’argomento, lo faccia tempestivamente, prima che mi trovi nella loro stessa condizione…
Pochi minuti fa ho appreso che il leccese Massimo Bray è stato nominato nel fresco fresco governo Letta ministro per i Beni culturali. Sono un ingenuo a sperare che egli, da leccese, ma soprattutto come ex direttore editoriale della Treccani, se avrà il tempo di leggere questo post e di far fare i dovuti controlli, nel caso in cui quanto ho scritto non fosse campato in aria, ci metta una pezza?
Mi auguro che la mia speranza non sia fantascientifica e, nell’attesa, ritorno al passato con gli autori latini.
Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/30/certi-cardi-22/
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1 Oltre alla specie vegetale indicava pure uno strumento di tortura, in pratica un pettine con i denti di ferro acuminati, più o meno simile a quello che poi sarebbe stato usato per cardare la lana (in origine, come si dirà, questa operazione era fatta dai lanaioli utilizzando proprio le inflorescenze seccate di un tipo di cardo).
2 Tutti i codici recano σκόλιον (leggi scolion) che però è il nome di un canto conviviale. Mi sembra perciò più che giustificato emendare σκόλιον con σκόλυμον (leggi scòliumon), accusativo di σκόλυμος (leggi scoliumos), da cui è derivato il pliniano scòlymos che, regolarizzato in scòlymus, è stato utilizzato come componente del nome scientifico del carciofo (Cynara cardunculus scolymus L.) e di parecchie specie di cardi selvatici (nelle foto lo Scolymus hispanicus L. e lo Scolymus grandiflorus Desf.).
3 Rendo così ἀτράκτυλον, voce assente nei vocabolari del greco antico ma che considero variante della registrata ἀτρακτυλ(λ)ίς/ἀτρακτυλ(λ)ίδος (da ἄτρακτος=freccia), tradotta con cardo spinoso.
4 L’originale ὀνόπορδον (leggi onòpordon, formato da ὄνος=asino+la radice di πέρδομαι=fare peti), tradotto alla lettera significa scorreggia d’asino.
5 I deipnosofisti, II, 82-84: Κινάρα. ταύτην Σοφοκλῆς ἐν Κολχίσι κυνάραν καλεῖ, ἐν δὲ Φοίνικι· ‘κύναρος ἄκανθα πάντα πληθύει γύην’. Ἑκαταῖος δ᾽ ὁ Μιλήσιος ἐν Ἀσίας περιηγήσει, εἰ γνήσιον τοῦ συγγραφέως τὸ βιβλίον Καλλίμαχος γὰρ Νησιώτου αὐτὸ ἀναγράφει, ὅστις οὖν ἐστιν ὁ ποιήσας, λέγει οὕτως· ‘περὶ τὴν Ὑρκανίην θάλασσαν καλεομένην οὔρεα ὑψηλὰ καὶ δασέα ὕλῃσιν, ἐπὶ δὲ τοῖσιν οὔρεσιν ἄκανθα κυνάρα’. Καὶ ἑξῆς’· ‘Πάρθων πρὸς ἥλιον ἀνίσχοντα Χοράσμιοι οἰκοῦσι γῆν, ἔχοντες καὶ πεδία καὶ οὔρεα, ἐν δὲ τοῖσιν οὔρεσι δένδρεα ἔνι ἄγρια, ἄκανθα κυνάρα, ἰτέα, μυρίκη’. Καὶ περὶ τὸν Ἰνδὸν δέ φησι ποταμὸν γίνεσθαι τὴν κυνάραν. Καὶ Σκύλαξ δὲ ἢ Πολέμων γράφει· ‘εἶναι δὲ τὴν γῆν ὑδρηλὴν κρήνῃσι καὶ ὀχετοῖσιν, ἐν δὲ τοῖς οὔρεσι πέφυκε κυνάρα καὶ βοτάνη ἄλλη’. Καὶ ἐν τοῖς ἑξῆς ἐντεῦθεν δὲ ὄρος παρέτεινε τοῦ ποταμοῦ τοῦ Ἰνδοῦ καὶ ἔνθεν καὶ ἔνθεν ὑψηλόν τε καὶ δασὺ ἀγρίῃ ὕλῃ καὶ ἀκάνθῃ κυνάρᾳ’. Δίδυμος δ᾽ ὁ γραμματικὸς ἐξηγούμενος παρὰ τῷ Σοφοκλεῖ τὸ κύναρος ἄκανθα· ‘μήποτε, φησί, τὴν κυνόσβατον λέγει διὰ τὸ ἀκανθῶδες καὶ τραχὺ εἶναι τὸ φυτόν. Καὶ γάρ ἡ Πυθία ξυλίνην κύνα αὐτὸ εἶπεν, καὶ ὁ Λοκρὸς χρησμὸν λαβὼν ἐκεῖ πόλιν οἰκίζειν ὅπου ἂν ὑπὸ ξυλίνης κυνὸς δηχθῇ, καταμυχθεὶς τὴν κνήμην ὑπὸ κυνοσβάτου ἔκτισε τὴν πόλιν’ ‘ ἐστὶ δὲ ὁ κυνόσβατος μεταξὺ θάμνου καὶ δένδρου,’ ὥς φησι Θεόφραστος, ‘καὶ τὸν καρπὸν ἔχει ἐρυθρόν, παραπλήσιον τῇ ῥοιᾷ, ἔχει δὲ καὶ τὸ φύλλον ἀγνῶδες’. Φαινίας δ᾽ ἐν ε᾽ περὶ φυτῶν κάκτον Σικελικήν τινα καλεῖ, ἀκανθῶδες φυτόν, ὡς καὶ Θεόφραστος ἐν ἕκτῳ περὶ φυτῶν· ‘ἡ δὲ κάκτος καλουμένη περὶ Σικελίαν μόνον, ἐν τῇ Ἑλλάδι δ᾽ οὐκ ἔστι. Ἀφίησι δ᾽ εὐθὺς ἀπὸ τῆς ῥίζης καυλοὺς ἐπιγείους, τὸ δὲ φύλλον ἔχει πλατὺ καὶ ἀκανθῶδες, καυλοὺς δὲ τοὺς καλουμένους κάκτους. Ἐδώδιμοι δ᾽ εἰσὶ περιλεπόμενοι καὶ μικρὸν ὑπόπικροι, καὶ ἀποθησαυρίζουσιν αὐτοὺς ἐν ἅλμῃ. Ἕτερον δὲ καυλὸν ὀρθὸν ἀφίησιν, ὃν καλοῦσι πτέρνικα, καὶ τοῦτον ἐδώδιμον. Τὸ δὲ περικάρπιον ἀφαιρεθέντων τῶν παππωδῶν ἐμφερὲς τῷ τοῦ φοίνικος ἐγκεφάλῳ, ἐδώδιμον καὶ τοῦτο, καλοῦσι δ᾽ αὐτὸ ἀσκάληρον’. Τίς δὲ τούτοις οὐχὶ πειθόμενος θαρρῶν ἂν εἴποι τὴν κάκτον εἶναι ταύτην τὴν ὑπὸ Ῥωμαίων μὲν καλουμένην κάρδον, οὐ μακράν, ὄντων τῆς Σικελίας, περιφανῶς δ᾽ ὑπὸ τῶν Ἑλλήνων κινάραν ὀνομαζομένην. Ἀλλαγῇ γὰρ δύο γραμμάτων κάρδος καὶ κάκτος ταὐτὸν ἂν εἴη. Σαφῶς δ᾽ ἡμᾶς διδάσκει καὶ Ἐπίχαρμος μετὰ τῶν ἐδωδίμων λαχάνων καὶ τὴν κάκτον καταλέγων οὕτως· ‘μήκων, μάραθα τραχέες τε κάκτοι. Τοῖς ἄλλοις μὲν φαγεῖν ἐντὶ λαχάνοις’, εἶτα προιών· ‘αἲ κά τις ἐκτρίψας καλῶς παρατιθῇ νιν, ἁδὺς ἐστ᾽ αὐτὸς δ᾽ ἐφ᾽ αὑτοῦ χαιρέτω, θρίδακας, ἐλάταν, σχῖνον, ῥαφανίδας, κάκτους’. Καὶ πάλιν· ‘ὁ δέ τις ἀγρόθεν ἔοικε μάραθα καὶ κάκτους φέρειν, ἴφυον, λάπαθον, ὀτόστυλλον, σκόλιον, σερίδα, ἀτράκτυλον, πτέριν, κάκτον, ὀνόπορδον’. Καὶ Φιλίτας ὁ Κῷος· ‘γηρύσαιτο δὲ νεβρὸς ἀπὸ ψυχὴν ὀλέσασα, ὀξείης κάκτου τύμμα φυλαξαμένη’.Ἀλλὰ μὴν καὶ κινάραν ὠνόμασε παραπλησίως ἡμῖν Σώπατρος ὁ Πάφιος γεγονὼς τοῖς χρόνοις κατ᾽ Ἀλέξανδρον τὸν Φιλίππου, ἐπιβιοὺς δὲ καὶ ἕως τοῦ δευτέρου τῆς Αἰγύπτου βασιλέως, ὡς αὐτὸς ἐμφανίζει ἔν τινι τῶν συγγραμμάτων αὑτοῦ. Πτολεμαῖος δ᾽ ὁ Εὐεργέτης βασιλεὺς Αἰγύπτου, εἷς ὢν τῶν Ἀριστάρχου τοῦ γραμματικοῦ μαθητῶν, ἐν δευτέρῳ ὑπομνημάτων γράφει οὕτως· ‘ περὶ Βερενίκην τῆς Λιβύης Λήθων ποτάμιον, ἐν ᾧ γίνεται ἰχθὺς λάβραξ καὶ χρύσοφρυς καὶ ἐγχέλεων πλῆθος καὶ τῶν καλουμένων βασιλικῶν, αἳ τῶν τε ἐκ Μακεδονίας καὶ τῆς Κωπαίδος λίμνης τὸ μέγεθός εἰσιν ἡμιόλιαι, πᾶν τε τὸ ῥεῖθρον αὐτοῦ ἰχθύων ποικίλων ἐστὶ πλῆρες. Πολλῆς δ᾽ ἐν τοῖς τόποις κινάρας φυομένης οἵ τε συνακολουθοῦντες ἡμῖν στρατιῶται πάντες δρεπόμενοι σίτῳ ἐχρῶντο καὶ ἡμῖν προσέφερον, ψιλοῦντες τῶν ἀκανθῶν’. Οἶδα δὲ καὶ Κίναρον καλουμένην νῆσον, ἧς μνημονεύει Σῆμος.
6 Composto da κυνός [leggi chiunòs, genitivo di κύων (leggi chiùon)=cane)+βάτος (leggi batos)=rovo]; alla lettera, dunque, rovo di cane, con riferimento alla forma delle spine che ricordano i denti dell’animale. Non è da escludersi, al di là dell’identificazione reciproca tra κυνόσβατος e κυνάρα/κινάρα che pure nell’etimo di quest’ultima coppia abbia un ruolo il cane. In rete e non solo è ricorrente il riferimento ad una Cinara dai capelli color cenere amata da Giove e da lui, non corrisposto, tramutata in carciofo. Nel recente post Attenti alla rete! (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/27/attenti-alla-rete/ ) credo di aver tracciato una convincente ricostruzione di quest’invenzione.
7 Naturalis historia, XXI, 57: Et cactos quoque in Sicilia tantum nascitur, suae proprietatis et ipse: in terra serpunt caules, a radice emissi, lato folio et spinoso. Caules vocant cactos, nec fastidiunt in cibis, inveteratos quoque. Unum caulem rectum habent, quem vocant pternica, eiusdem suavitatis, sed vetustatis impatientem. Semen ei lanuginis, quam pappon vocant: quo detracto et cortice, teneritas similis cerebro palmae est; vocant ascalian.