La grotta dei Cervi di Badisco: considerazioni ed ipotesi sul pittogramma dello “sciamano”

Baia di Badisco

 di Elvino Politi*

La presenza umana nel Salento sin dall’età del Paleolitico Medio è testimoniata da rinvenimenti che costituiscono ad oggi una delle sezioni più importanti per uno studio compiuto della preistoria nell’Italia Meridionale. Ci riferiamo in particolar modo ai depositi di Maglie, relativi il sito di Cattie, che hanno restituito tra i pochissimi resti osteologici riferibili all’uomo neandertaliano. Qui sono stati rinvenuti altresì industrie di piccolo formato di tipo charentiano con accenni alle tecniche di Quinson.

Al sito magliese si aggiungono i depositi, riconducibili al Würm II, di Castro (Le) localizzati in Grotta Romanelli (da cui la facies omonima) e Nardò (Le) localizzati in Grotta del Cavallo in località Uluzzo (da cui la facies musteriana “uluzziana”).

Quest’ultima, che si colloca tra il Würm III e l’interstadio di Arcy, è il più antico sito italiano riferibile al Paleolitico Superiore e si compone di tre stadi rispettivamente arcaico (strato E III) medio o avanzato (strato E II-I) e recente (strato D).

gruppo di Neanderthal

L’importanza che ricoprono tali siti è dovuta non solo allo sviluppo di attività proprie, tali da distinguerle come facies autonome all’interno dello schema culturale di riferimento riscontrabili anche oltre l’orizzonte territoriale prettamente locale, ma anche al fatto che la scoperta delle stratificazioni di materiale antropico e faunistico nei depositi menzionati e loro diretti collegati, sia stata la prova dell’avvenuta fase paleolitica media nell’Italia Meridionale, ipotesi che non trovava conferma repertata prima d’allora. E’, tuttavia, la fase neolitica che fornisce le più ampie e diffuse realtà insediative. Basti ricordare gli esempi dello stile Diana – Bellavista che vede proprio nel Salento testimonianze quali la Grotta del Fico, la Grotta S. Angelo e la Grotticella di Arnesano, indicando un uso sepolcrale di anfratti naturali, oltre che i numerosissimi siti sepolcrali a cerchi o insediativi.

reperti a Serracicora (Nardò)

In questo nostro intervento non vogliamo considerare le singole unità, né tantomeno disquisire sulle attività dei gruppi umani che le occupavano. Ci tratterremo esponendo qualche considerazione relativa la Grotta dei Cervi in località Porto Badisco nel comune di Otranto (Le).

Mappa di Badisco

L’antro, in un primo tempo denominato “grotta di Enea” per la tradizione che voleva nei pressi di Porto Venere l’approdo descritto nel libro III dell’Eneide, fu scoperto il 1° febbraio 1970 dal Gruppo Speleologico Salentino “De Lorentiis”.

La cavità si apre su un’antica piattaforma marina, di origine oligocenica a strati e banchi e si sviluppa in tre corridoi distinti.

cartina della Grotta dei Cervi

I rami della grotta sono ricoperti di figure tratte con ocre rossa (in maniera esigua) e guano di pipistrello riconducibili al neolitico recente e alla fase iniziale dell’eneolitico. Tale datazione è stata  possibile attraverso l’individuazione di strati di frequentazione con industrie similari al neolitico con ceramica a bande rosse nell’avangrotta, che hanno restituito scheletri e manufatti.

L’importanza che ricopre la Grotta dei Cervi nel panorama della raffigurazione preistorica, quindi, non consiste tanto nella unicità delle raffigurazioni, né tantomeno nella loro antichità. Sappiamo bene, difatti, che già nella Romanelli esistono graffiti ed incisioni raffiguranti scene di caccia , e sappiamo bene che il periodo di frequentazione di Badisco è interessato dallo sviluppo di forme e simboli pittorici che denotano capacità comunicativa tra coloro che li producono. La valenza, pertanto, della Grotta di Badisco è quella della presenza massiva e imponente di opere pittoriche, tanto più chè, come giustamente sottolinea il Graziosi, la quantità di graffiti si concentra all’interno di un’unica grotta. Ma se è notevole e di comune acquisizione la valenza quantitativa e stilistica, nonché conservativa delle figure, di tutt’altro tenore appaiono le interpretazioni ad esse legate.

Questo perchè oltre alle scene di vita quotidiana facilmente individuabili e che rappresentano cacce o gruppi di cervidi, sussistono elementi astratti, o quantomeno considerati tali, che rimandano a segni codificati che nella società attuale corrispondono a grandi linee a processi culturali già acquisiti.

Difatti, ancor oggi chi si appresta a confrontarsi con i pittogrammi di Badisco, pur conscio che l’unico ambito nel quale progredire è solo quello dell’ipotesi, si ritrova suo malgrado ad interpretare con l’occhio della civiltà corrente ciò che da essa prescinde. Si rischia così di commettere l’antico errore di classificare come cultuale tutto ciò a cui non si riesce a dar spiegazione. Ed ancora, si rischia di portare sulla sfera religiosa ogni comportamento umano, relegandolo alla magia e alla ritualità sacra, in un periodo in cui l’essenza stessa della coscienza soprannaturale era agli albori.

Pertanto, crediamo sia opportuno avvicinarci all’ipotesi di interpretazione di alcuni simboli di Badisco semplicemente tenendo conto degli elementi strutturali che costituiscono la simbologia: misurazione, pianificazione, raffigurazione, comunicazione.

In quest’ottica, possiamo elaborare un sentimento primo che vede l’esigenza comunicativa al primo posto, quale necessità primaria dell’essere umano. Tale esigenza porta non solo a trasmettere un messaggio, ma a trasmettere codici anche gerarchici attraverso la pittura del corpo e l’adozione di strumenti simbolici.

Tale comunicazione, tuttavia, non può prescindere dalla raffigurazione del mondo reale prima di quello astratto. Stupisce come molto spesso riferendosi ai pittogrammi di Badisco, si senta parlare di teorie che escludono contatti col mondo, come se i frequentatori del sito fossero del tutto estranei al contesto culturale di appartenenza o costituissero una comunità religiosa e visionaria tale da trasporre in forme astratte non quanto la realtà poneva loro di fronte, ma esperienze mistiche ed  ultrasensoriali derivate da non precisate pratiche di tipo magico – religioso.

E’ necessario ricordare che Badisco non produce una facies propria, così come accennato in precedenza, ma si caratterizza in toto, anche attraverso il rinvenimento delle officine in situ, alla fase periodale di riferimento.

Andiamo perciò a considerare uno dei pittogrammi a cui si fa cenno, e precisamente a quello relativo il gruppo 46 del corridoio 2. La figura a cui accenno è conosciuta anche dal vasto pubblico ed anzi, costituisce di per sé il simbolo dell’intero complesso pittorico.

Ci riferiamo al segno denominato “scimmietta” o “sciamano”. In questi anni, la figura dalla vaga forma antropomorfa, è stata sempre oggetto di curiosità anche in funzione al fascino che indubbiamente essa ispira, dovuto alle sue forme e alla caratteristica delle sue linee.

In epoca recente, alla tradizionale ipotesi interpretativa dello sciamano, si è aggiunta quella del “re danzante” mutuando la tradizione del ballo popolare alle attività sacre delle popolazioni neolitiche. La figura in oggetto si presenta in forma  effettivamente antropomorfa, ma subito dopo una prima analisi si intuisce la mancanza di elementi oggettivamente antropici e in più si nota l’aggiunta di una non meglio specificata “coda” che poco avrebbe a che fare con la figura umana. Al di sotto di essa due linee a forma di cuore si incrociano senza definire alcun significato apparente. Ci siamo chiesti allora il motivo di tale raffigurazione, che se figura un essere umano si discostava in maniera netta con tutte le altre raffigurazioni ivi presenti. Difatti, le numerose scene di caccia e altre raffigurazioni di tipo chiaramente umano sono del tutto diverse da quella di cui ci occupiamo.

 

Se la differenza è dovuta allo status predominante del soggetto, appare del tutto inspiegabile la dimensione, molto piccola rispetto ad altre immagini, nonché la posizione che, ribadiamo, la colloca nella parte terminale del corridoio 2. Inoltre, il noto archeologo Leroi Gourhan dimostra come sia pressocchè impossibile per l’epoca avere raffigurazioni umane in contesti isolati e non contestualizzate in ambienti ordinari tipo le cacce.

Sappiamo bene, in virtù di quanto premesso, che la nostra è solo un’ipotesi, anche perchè sarebbe impossibile dare legittima interpretazione all’enorme complesso pittorico. Tuttavia, proviamo ad uscire da quanto finora dato per acquisito (ovvero l’antropizzazione della figura) per collocarla in un ambiente più vasto.

Si diceva che uno dei metri dell’arte pittorica in genere è proprio la raffigurazione del quotidiano o dell’ambiente circostante. Guardando il sito in cui insiste Badisco, ci rendiamo conto che consiste di una caletta con ulteriori anfratti in direzione nord e sud. Due grandi canaloni procedono dall’entroterra a convogliare le acque sorgive verso il mare, intersecandosi tra loro. A questo punto, poniamo il paragone tra la raffigurazione e la carta di Porto Badisco. Si notano somiglianze tra la parte inferiore dell’immagine e la linea di costa dell’area. Provando, quindi, a posizionare con un semplice processo di sovrapposizione l’immagine satellitare e il pittogramma, notiamo come essa corrisponda in maniera estremamente fedele, coi limiti dovuti, con l’altra, evidenziando la linea di costa e i canaloni a forma di cuore.

 

Resta perciò da esprimere il significato della testa coronata e della “coda”. Ebbene, ponendo in ingrandimento l’immagine pittorica ci si accorge che la cosiddetta coda si distacca dal “corpo” e costituisce per spessore un elemento a sé stante. Possiamo immaginare quindi, che in mancanza del colore pittorico si sia proceduto a rendere simbolicamente il mare, raffigurando l’onda nel modo più semplice e tradizionale.

Relativamente alla testa coronata, possiamo ipotizzare si tratti della raffigurazione dell’alba che, quotidianamente, spunta dallo sperone roccioso così come indicato dalla figura della grotta.

Non, quindi, un simbolo religioso a guardia di chissà quali culti, ma la raffigurazione del quotidiano attraverso la conoscenza diretta dell’ambiente di vita, in particolar modo del momento preciso della nascita del nuovo giorno. Se così fosse, l’importanza di Badisco sarebbe amplificata dalla conservazione all’interno della Grotta dei Cervi della prima “carta geografica” della storia, sintomo di una comunità che già usciva dalla preistoria andando incontro alla civiltà del simbolo codificato e della scrittura.

* direttore Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto

 

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11 Commenti a La grotta dei Cervi di Badisco: considerazioni ed ipotesi sul pittogramma dello “sciamano”

  1. L’ipotesi è suggestiva. Mi permetto, però, di ricordare che già per la mappa di Soleto la rappresentazione a volo d’uccello (anche se qui il territorio sarebbe notevolmente più ridotto) rappresenterebbe per alcuni la prova che si tratterebbe di un falso. Nel campo delle congetture, poi, il rischio di fortuite coincidenze è sempre in agguato. E, giacché ci sono, dico la mia: e se i due simboli a forma di cuore fossero due serpenti e l’intera figura una sorta di Quetzalcoatl ante litteram? Sento già il commento: questo è già ubriaco appena si leva dal letto…

    P. S. Sulla Grotta dei cervi segnalo “Pagine di pietra a Badisco”, foto racconto di Pino Salamina (il fotografo della scoperta), edizione a cura del Gruppo Speleologico Leccese ‘NDRONICO, AGM, Lecce, 2009; l’opera, veramente pregevole non solo sotto l’aspetto del corredo fotografico, è stata in libera, gratuita, sottolineo gratuita, distribuzione.

    Sull’origine allucinogena delle pitture vedi in rete “La magia dei fosfeni nelle pitture di Grotta dei cervi a Porto Badisco” di Maria Laura Leone all’indirizzo
    http://www.artepreistorica.com/wp-content/uploads/2010/01/09.Leone-Badisco1.pdf

    e della stessa autrice e pubblicato a sue spese “La fosfenica Grotta dei cervi”, Ilmiolibro.it, 2009

  2. Grazie per il commento al mio contributo sulla grotta di Badisco. Mi permetto di farle notare alcune considerazioni: la “Mappa di Soleto” è stata ufficialmente ritenuta autentica, tant’è che il 16 Novembre 2005 è stata curata dalla Soprintendenza Archeologica per la Puglia e dall’Università di Bruxelles tramite il prof. Thierry von Compernolle una mostra appositamente dedicata all’ostrakon presso il Museo Archeologico Nazionale di Taranto. E’ vero che la storiografia procede per ipotesi, ma sono del parere che una mostra ad hoc presso un museo archeologico nazionale non viene fatta se non si hanno dei presupposti validi circa l’autenticità del reperto. E comunque, la discussione sulla cosiddetta “Mappa di Soleto” tratta la sua comparsa prima della cartografia romana, che fino a quel momento era stata l’incipit della resa mappale. Nulla perciò a che vedere con la raffigurazione “a volo d’uccello” (sarebbe interessante sapere come realizzare una carta diversamente), semmai una controversia se la cartografia mediterranea avesse per madre la cultura greca (a cui l’ostrakon appartiene a prescindere della realizzazione probabilmente messapica dell’oggetto) o romana. Tuttavia, il paragone con la mappa soletana, come giustamente lei considera, è inappropriato perchè mentre la prima corrisponde ad un’esigenza di resa cartografica, a Badisco probabilmente si tratta della raffigurazione di un evento, quindi completamente diverso per scopi e finalità. Mi permetto di ricordare che in archeologia le congetture sono supportate da considerazioni verificate e verificabili e sono inserite in contesti prettamente tecnici così come accennato nella prima parte del mio contributo, e perciò le coincidenze fortuite sono molto rare. Magari si tratta di ipotesi da approfondire o tracce di studio, probabilmente anche prontamente smentite da contesti oggettivi diversi, ma mai nell’archeologia moderna possiamo parlare di “fortuna” o di “coincidenza”. L’archeologia si basa prettamente su studi scientifici, cioè dimostrabili e ripetibili, e non è più la ricerca da “caccia al tesoro” come fino al secolo scorso. Pertanto non può assolutamente prendere in considerazione eventi quali il fosfenismo che non ha letteratura in archeologia e si sviluppa come corrente iniziatica di recente costituzione di matrice newage mutuando alcuni aspetti del fosfene che in medicina rappresenta tutt’altro. Un ultimo accenno al Quetzalcoatl. Si parla di “fortuite coincidenze” e poi si mette in relazione l’immagine di Badisco con una divinità del Mesoamerica che dista enormemente sia come cultura che come territorio dall’area del Salento. Non mi pare archeologicamente corretto parlare di Otranto in relazione agli aztechi o altre culture di lingua nahuatl. L’immagine del Serpente piumato del Codex Borbonicus si avvicina vagamente alla fisionomia della figura di Badisco, ma non ha nulla a che vedere, anche perchè, di fatto, non è rappresentata con gli stilemi propri e già noti. Grazie ancora.

  3. Non è la rappresentazione “a volo di uccello” che pone i dubbi sull’autenticità della mappa di Soleto. Primo, perché non c’è nessuna rappresentazione a “volo di uccello” in quella mappa. Non si sa quale sbadato abbia tirato fuori un termine che nelle rappresentazioni ha un termine ben preciso e per nulla confà alla mappa di Soleto. Si replica questa storia della mappa a “volo di uccello” senza capirne il significato. La rappresentazione “a volo di uccello” è una classica raffigurazione da un punto di vista alto, assonometrico o prospettico, dove sono evidenziate le altezze delle caratteristiche dell’oggetto (fabbricati, monti, ecc..). Si illustravano in questo modo le città più note riportando mura di cinta, castelli e caseggiati. La mappa di Soleto è invece una mappa tradizionale (piana) con un tentativo di ricostruire il contorno della penisola e la posizione dei centri abitati. Per questo viene messa in discussione: proprio in quanto mappa e nulla più. Pare che le prime mappe geografiche siano state prodotte dai Romani, perché prima non se ne ha traccia. In realtà la mappa di Soleto è una incisione alla buona, non riproducibile, su un oggetto di uso forse comune. Uno scarabocchio col chiodo per indicare a qualcuno un percorso da fare per non perdersi.

  4. Il congresso di Montpellier (10-12 marzo 2005), cui seguì la mostra di Taranto, non ha affatto diradato i dubbi sull’autenticità dell’oggetto, basati sull’orientamento della rappresentazione e su altri dettagli messi in campo che non è qui il caso di elencare. I dubbi, perciò, restano, anche se le loro motivazioni mi lasciano perplesso, convinto come sono, pur non essendo nessuno, che l’oggetto in questione non sia un falso. Quanto agli studi “dimostrabili e ripetibili”, nella fattispecie, così come succede, per esempio, in campo etimologico, la dimostrabilità e la ripetibilità consisterebbero sostanzialmente nella conoscenza (o eventualmente nella scoperta) di fenomeni o rappresentazioni analoghe sicuramente interpretabili in modo univoco. Essendo totalmente ignorante in questo, chiedo se esiste documentazione a supporto che autorizzi a pensare che il nostro sciamano/mappa non sia un apax (il che non esclude a priori che si sia nel vero, anche perché c’è sempre e in tutto una prima volta), Per quanto riguarda i fosfeni, invece, chi mette in campo (non per lo sciamano, ma per le altre rappresentazioni, per così dire, astratte) la teoria allucinogena crede di ravvisare un precedente nelle pitture dei Chumash e dei Tukano nell’interpretazione delle ricerche di Dolmatiff. Quanto al serpente piumato, non sarebbe , per evidenti motivi cronologici, il nostro presunto sciamano a ricollegarvisi, ma viceversa; tuttavia, confermo: non so se nel momento in cui l’ho ipotizzato mi ero messo in testa di essere Peter Kolosimo oppure, come ho già detto, ero già ubriaco allo spuntar del sole. Grazie per il gradevolissimo e istruttivo, almeno per me, scambio di idee.

  5. Sebbene ogni grotta debba essere considerata un discorso a sè, tuttavia è noto che l’arte preistorica è legata all’ambiente dell’uomo. Lo schema di Leroi Gourhan, che segue Annette Laming- Emperaire, prevede che le immagini siano disposte secondo tematiche ben precise e che sviluppano scene di vissuto ordinario e non fenomeni allucinogeni. Tale schema è oggi applicato in tutte le grotte con raffigurazioni parietali tra cui le tantissime dell’area Perigord (famosa quella paleolitica di Lascaux) dei Pirenei e della Cantabria e fornisce, pertanto, una ben vasta area di riferimento. E’ pur vero che le teorie dello studioso francese appaiono oggi generalizzate, ma di fatto non esiste alcun elemento che possa far ipotizzare raffigurazioni visionarie nell’arte parietale preistorica. Pertanto, al di là del singolo pittogramma, la letteratura scientifica “dimostrabile e riproducibile” ci dice che l’ambito nel quale indagare, sempre con l’obbligo dell’ipotetico, è quello della rappresentazione del reale, magari anche in forme astratte , ma non di soggetti trascendenti. In virtù di questo è più probabile e allineata con le esegesi diffuse in tutta l’area Europea una raffigurazione paesaggistica piuttosto che sciamani o divinità che dir si voglia. E comunque, l’eccezionalità della raffigurazione sarebbe davvero importantissima molto più che un semplice stregone. I riferimenti di Dolmatiff si rifanno a culture e pratiche esistenti al giorno d’oggi nell’area delle Ande praticate da popoli che hanno origine dalla Cultura Folsom, e perciò non sono accomunabili nè con l’area idruntina nè col periodo storico di cui stiamo disquisendo. Ovviamente, questo contributo è limitato dal tempo e dallo spazio cortesemente concesso, dovendo tali argomenti essere trattati con maggiore profondità e riferimenti tecnici che solo una pubblicazione possono consentire. Grazie

  6. Resta in ogni caso un’ipotesi davvero suggestiva e ben strutturata! Complimenti al suo artefice

  7. nell’articolo si tiene conto dei cambiamenti geomorfologici avvenuti nel corso dei millenni?!?!

  8. Entrando nel merito della discussione mi accorgo che, con le considerazioni fatte a base della ipotesi di interpretazione, cioè quelle di rappresentare comunque fatti contingenti alla realtà e non proiezioni in campo metafisico, trovo due difficiltà ad accettare la soluzione della mappa. La prima è che nel processo cominicativo un grande spazio sarebbe stato disegnao con una grande dimensione. Se l’autore avesse letto esattamente i contorni della costa avrebbe capito che bisognava giganteggiare un minimo di più per non correre il rischio di affogare il tutto nello spessore del tratto. Ne avrebbe approfittato per indicare più particolari di interesse (ingressi, punti particolari, ecc…) che in parte pure sembrano esserci. Questo dal punto di vista meramente e istintivamente pittorico e comunicativo. Poi succede che col tempo o con la ripetizione la rappresentazione efficace si contrae nel simbolismo e resta appunto il simbolo senza la capacità della descrizione. La seconda difficoltà è la precisione della restituzione. E’ più facile per intere flotte di naviganti passate dal Canale d’Otranto restituire i due allineamenti generali della costa salentina (tratto da Leuca a Otranto e tratto da Leuca a Taranto) e formare così la mappa di Soleto che per un umano che non disponga di un mezzo di sollevamento capire e restituire esattamente una conformazione complessa come quella di Badisco sia pur notevolmente più piccola di tutta la penisola. Per restituire quella precisione bisogna fare misurazioni locali almeno a passi (i vecchi catasti usavano le misure a canne). E’ vero che il disegno non calza esattamente con il profilo della costa e questo depone in favore della ipotesi di Politi. Comunque concordo con le continue forzature a ricondurre tutto al piano metafisico, religioso o a un astrattismo troppo spinto.

  9. All’epoca della frequentazione della grotta la linea di costa era probabilmente molto diversa.

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